Negli ultimi giorni si è parlato di due persone. Il primo si chiama Dante Alighieri, lo conosciamo tutti (più o meno). Ce lo ritroviamo da vent’anni sulla moneta da due euro, con il suo inconfondibile profilo. Quest’anno si ricordano i 700 anni dalla sua morte e le celebrazioni di queste settimane ne sono una piena testimonianza. Poi c’è Alessandro Barbero, storico illustre, idolo di molti millennials, inconsapevole protagonista di meme social; questa settimana una sua frase estrapolata da un’intervista sulle “differenze strutturali” tra donne e uomini è stata oggetto di un intenso dibattito. Qui non ne parleremo ma approfitteremo di incrociare i due personaggi in un’unica direzione.
Un anno fa Barbero ha pubblicato un saggio-romanzo dal titolo Dante (Laterza, 361 pp., 20 euro) che racconta, con la consueta enfasi e cura, la storia privata e pubblica del Sommo Poeta. Le vicende di Durante Alighieri (detto Dante) sono quelle di un ragazzino figlio di un usuraio che ha il sogno impetuoso di emanciparsi: vuole sedere nei tavoli del decisionismo, vuole confrontarsi con la nobiltà che comanda e disfa la società del tempo. Lui, il borghese, uno dei grandi padri della poesia stilnovista. La sua visione dell’amore dipesa da Beatrice e l’uso della poesia servono ad esprimere un modo di vivere la quotidianità: l’amore viaggia nella mente e riflette ciò che si fa. Arrivano gli anni difficili, le incomprensioni con alcuni colleghi poeti, l’esilio, il riscatto voluto e non trovato, la ricerca di una sua identità per lui fiorentino fuori forzatamente da Firenze.
L’esilio gli serve a capire come è l’Italia del Trecento, a comporre il suo puzzle di pensieri e impressioni che troveranno massima espressione nella Divina Commedia. In quei canti, tra inferno-purgatorio-paradiso, condanna e magnifica la sua formazione, giudica personaggi di ogni genere (politici, poeti, papi). Barbero ci fa quindi notare che in questo poeta romanziere c’è soprattutto un uomo, oltre al suo contributo artistico immenso. Un uomo con le sue fragilità, le sue tracotanze e la sua voglia di dimenticare affronti. Forse non avrebbe mai immaginato, passati 700 anni, che venisse celebrato come il più grande di tutti i tempi. O forse sapeva che il tempo è galantuomo e che la sua identità l’avrebbe (ri)trovata: quella dell’eccellenza italiana.