Nell’anno del Covid19, della facile e scontata prosa sulla pandemia mondiale, a vincere il Premio Nobel per la Letteratura è una poetessa. Addetti al lavoro e bookmakers erano pronti a scommettere su nomi che richiamassero a lavori inerenti alla pandemia o riguardassero le periferie del mondo. Il riconoscimento invece va ad una Statunitense. A leggere il nome di Louise Gluck molti avranno, più che storto il naso, domandato chi fosse.
Louise Gluck nasce a New York nel 1943. Il padre fu un uomo d’affari mentre la madre si occupò principalmente dell’educazione della figlia. Laureata in francese, impartì alla figlia i primi rudimenti sulla mitologia greca (traccia indelebile nella formazione della poetessa) oltre ad incoraggiarla a scrivere le primissime poesie.
Un momento cruciale per Gluck sarà l’ultimo anno al Hewlett High School: inizia a soffrire di anoressia nervosa. Tale condizione la porterà alla scelta di sottoporsi ad un trattamento psicoanalitico, per sette anni. Sono anni intensi in cui analizza la sua condizione di ragazza, il futuro e quel rapporto simbiotico materno.
Concluse le superiori comincia a seguire diversi seminari e corsi di poesia. Si affina sempre più e capisce che l’utilizzo della poesia può essere il modo con cui esprimere la sua parte distaccata dal mondo circostante. Nel 1968 pubblica la sua prima raccolta di poesie Firstborn, che raccoglie buone critiche.
Continua a scrivere e produrre con discreta frequenza, per analizzare non tanto l’attualità americana ma la sua, una condizione di profonda incertezza: la produzione di Gluck è cruda e non si lascia andare ad enfasi e sentimentalismi. Queste peculiarità le attireranno diverse critiche: viene considerata cinica, per nulla dedita all’esercizio della consolazione.
Tra le raccolte da ricordare nel recente passato ci sono The Wild Iris con la quale vinse il prestigioso premio Pulitzer nel 1992, October nel 2004 dedicata alla tragedia delle torri gemelle in cui esplora la drammaticità della sofferenza umana e Averno nel 2006. Quest’ultima, che prende il nome da un lago della Campania, è l’unica produzione di Gluck disponibile in lingua italiana (pubblicato da Dante & Descartes).
La poesia di Gluck è una miscela violenta tra desiderio e apparenza, che sfocia in trauma. Il desiderio concepito nelle sue diverse forme quali amore, felicità, famiglia, autorealizzazione di sé. Dalla parte opposta sopravvive il trauma nelle sue forme di mancato sollievo, di un costante lutto che non riesce a cedere alla propria intimità.
Come detto prima, la poesia di Gluck non è consolatoria; è nient’altro che uno sguardo severo ma pudico sugli aspetti di una quotidianità ostinatamente ancorata alle fragilità umane. La poesia di Gluck evita le tematiche sociali e politiche: difficilmente si troveranno riferimenti alla religione e all’etnia. Sceglie invece di scavare dentro l’animo umano utilizzando un mondo ideale per lo più mitologico e imperfetto.
La poesia di Louise Gluck è un esempio di “distanziamento sociale” artistico in cui non ci sono rime, c’è una forma d’eleganza in cui espone sé stessa, senza pretese di esplorare il mondo ignoto o necessariamente parlare ad un pubblico o ad una categoria.
Emblematico un verso tratto da The Wild Iris: Credete che mi importi se vi parlate?