Monreale, 26 febbraio 2017 – Riflettendo sul Carnevale ci si chiede, spesso, se abbia ancora un senso in questa società dell’ostentazione perenne, sempre più disinibita e auto-celebrativa.
In passato si aspettava questo evento con trepidazione, per poter trascorrere qualche giorno lieto e spensierato di esclusivo divertimento, dal momento che si era costantemente soggetti a rigide regole familiari e consuetudini di facciata.
Oggi la realtà si palesa attraverso un’evoluzione di costume improntata su di una maggiore libertà, rispetto all’osservanza di convenzioni e stereotipati protocolli sociali, pertanto le considerazioni sul reale valore degli eventi carnevaleschi, al di là della mera tradizione, sorgono spontanee.

Il Carnevale è sempre stato considerato più che una Festa: un momento di sospensione, un salutare omaggio alla parte più allegra e godereccia del nostro esistere in questo mondo, una parentesi dal tempo ordinario, sempre uguale a sé stesso. Esso, quindi, presenta elementi di continuità rispetto a tutte le altre feste del corso dell’anno, ma anche svariate situazioni di “rottura” che lo connotano come Festa dell’inversione, del ribaltamento di tutti i valori, della sovversione degli ordinari codici di comportamento.
Tale aspetto risulta essere fondamentale nella cultura tradizionale e sociale. Questa Festa non può esistere di per sé senza che si leghi al suo antagonista: il tempo quotidiano ordinario, usuale e immutabile. Per una porzione temporale definita, il Carnevale si oppone alla fatica del lavoro, al pesante e inesorabile scorrere di un tempo monotono o spesso eccessivamente statico e ripetitivo, alla paura di ciò che la quotidianità ci richiede in termini di efficienza, all’ordine predefinito di alcune routine dure a morire, alla sofferenza della complessità del vivere pienamente un tempo tiranno, che continuamente ci sfugge o non ci supporta come vorremmo … elementi questi purtroppo ancora troppo presenti nella nostra, seppur moderna e libera società in progressiva evoluzione.
Ecco che, visto da questa angolazione, esso continua ad esercitare una valenza antropologica importante: quella di rappresentare, ancora oggi, il momento della leggerezza, della partecipazione priva di quell’ansia da prestazione che attanaglia un po’ tutti, senza grosse distinzioni, dell’ostentazione di una creatività autentica e bizzarra, spesso smarrita, della socializzazione estrema e giocosa, dell’abbandono delle proprie angosce e frustrazioni.
In un assetto sociale come quello attuale, dove molte libertà individuali appaiono più che scontate, un elogio “del superfluo”, come in realtà può sembrare il Carnevale, diventa quasi necessario. Ciò si spiega con il profondo bisogno di compensare le mutate esigenze relazionali, stravolte rispetto ad un passato anche piuttosto recente, che si mostrano decisamente più individualiste e inesorabilmente meno centrate sul “Noi”. Esse celano, con sempre maggiore evidenza, crisi personali, baratri esistenziali, maschere inaccessibili, sovrastrutture ipocrite perenni, da cui è bene dissociarsi, prendere le opportune distanze, rigenerandosi…anche solo per poche fondamentali ore di spensieratezza attraverso quella momentanea, superflua, straordinaria “irrealtà” che, a volte, apre un’infinitesimale via d’uscita alla “realtà”.
“Per quanti minuti della giornata io sono io? Per quanti altri replico una maschera, un gesto imposto da un regista che non si vede e che ignoro?”
Gesualdo Bufalino