Monreale, 19 gennaio 2019 – Nel pomeriggio del 16 gennaio 1969 a Praga, in piazza San Venceslao, Jan Palach, studente di filosofia cecoslovacco, si cosparse il corpo di benzina immolandosi col fuoco (come i monaci buddisti in Vietnam, nel ’64, contro un altro impero: quello americano). Morirà il 19 gennaio del 1969 – esattamente cinquanta anni fa – dopo tre giorni di straziante agonia e mantenendo sino alla fine una incredibile lucidità mentale, testimoniata – peraltro – dalla drammatica intervista filmata rilasciata sul letto di morte. Quelle immagini e quelle parole sono state trasmesse dal secondo canale della Ceska Televize nel 2008: “Volevo esprimere il mio dissenso a quanto sta accadendo, ridestare la gente”. ….. “ Cesseremo con questi gesti quando sarà abolita la censura e bloccata la diffusione di Zpravy “ (quotidiano filosovietico). Al suo funerale parteciparono 600.000 persone (“dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava“, per citare una splendida canzone di Francesco Guccini). La Pravda prima ignorò, poi definì Palach “un drogato provocatore“! La sua tomba era divenuta un luogo simbolico dove quotidianamente si recavano decine, centinaia di connazionali. Fu disseppellito e messo in una fossa comune!
La sua (e quella di altri 7 studenti che successivamente compirono identico gesto, completamente oscurati dalla censura dopo il clamore suscitato dal martirio di Palach) fu la reazione disperata allo strapotere del PCUS, “il partito fratello….” dell’Unione Sovietica che il 21 agosto dell’anno precedente aveva posto fine alla Primavera di Praga sotto il fragore dei cingoli di 7000 carri armati, il calpesto degli scarponi di 500.000 soldati e la copertura di 800 aerei del Patto di Varsavia (ad eccezione della Romania).
Uno spiegamento di forze assolutamente sproporzionato per un paese di 14.500.000 abitanti (censimento 1970), neanche se dovessero invadere un continente intero! Ma occorreva lasciare un segno: quello della potenza e del terrore.
Jan Palach aveva accolto con entusiasmo – come una buona parte dei Ceki e degli Slovacchi – l’avvento di Alexander Dubcek e l’avvio delle riforme verso un socialismo dal volto umano. Jan Palach fu assorbito dal fermento culturale e politico della Cecoslovacchia degli anni 60’, ma la sua adesione a quella prospettiva di cambiamento era ulteriormente maturata durante una vacanza lavoro in Francia (premiato dal Partito Comunista Cecoslovacco per la sua diligenza e compostezza…), dove aveva avuto modo di respirare e toccare con mano la ventata di contestazione del ’68 europeo occidentale..!
Sotto il profilo politico istituzionale la Primavera era iniziata il 5 gennaio 1968 con l’assunzione della carica di Segretario Generale del P.C.C di Dubcek, riformista di origine slovacca. Aveva preso il posto di Antonin Novotny.
In realtà il fermento culturale e politico era iniziato almeno 5 anni prima: negli ambienti accademici ed intellettuali, nella TV di Stato, nella società e tra gli operai. La Cecoslovacchia (assieme alla Germania Est) era uno dei paesi economicamente più avanzati “del blocco socialista“. Il malcontento diffuso non prendeva le mosse, quindi, da condizioni di sottosviluppo o da crisi recessive importanti (non si formavano code per la distribuzione dei beni di consumo di base…), ma dal bisogno di libertà e partecipazione. Si facevano inchieste e promuovevano discussioni sugli anni più bui dello stalinismo, sul colpo di stato di Praga del 1948 (diretto da Mosca), sull’asservimento della avanzatissima industria cecoslovacca alle necessità militari (e non solo) dell’Urss, ect. Il PCUS aveva pensato di far rientrare tutto nei ranghi con una operazione di facciata, sostituendo lo stalinista Novotny con il più presentabile e popolare Dubcek. Credeva poi di poterlo manovrare a proprio piacimento. Non andò cosi’!
Dubcek avviò un processo di riforme e di umanesimo socialista. Abolì la censura. Troppo breve il periodo di quella Primavera per poterne decifrare le molteplici tendenze e gli sbocchi possibili. Le riforme avviate da Dubcek – e “il laboratorio politico” che lievitava tra i cittadini – andavano verso la democratizzazione del partito e delle istituzioni, il pluralismo socialista (che poteva anche preludere ad una svolta verso un pluralismo universale, pluripartitico), il decentramento amministrativo, la gestione delle fabbriche di Stato e dei servizi affidata a tecnici ed amministratori competenti, nonché al controllo dei lavoratori; la introduzione di elementi di mercato.
Il 27 giugno 1968 lo scrittore Ludvik Vaculik – assieme ad altri 70 accademici e dirigenti di Università – pubblica il “Manifesto delle duemila parole“, che pone l’enfasi sul nuovo corso ed auspica un’azione dal basso per rinnovare la società, precisando che non sarebbe stato possibile farlo senza e contro i comunisti. La stampa sovietica lo bollò di “filocapitalismo“… .
Ovunque nascevano centri di discussione ed incontro. “L’uomo della strada“ fu un protagonista di quella Primavera.
Era troppo per Leonid Breznev! Sin dal mese di aprile vennero divulgate direttive poco rassicuranti; a maggio alcuni contingenti militari penetrarono in territorio cecoslovacco, formalmente per manovre ed esercitazioni, in realtà si trattava di precisi avvertimenti!
A luglio del ’68 vi fu l’ultimo incontro – precedente alla occupazione – tra Breznev e Dubcek (accompagnati da folte delegazioni del Politburo sovietico e del Presidium cecoslovacco) alla stazione di Cierna Nad Tisou, paese alla frontiera tra la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica. Sembravano aver raggiunto un compromesso. Ma in realtà era anche un modo di prendere tempo per organizzare e gestire al meglio una decisione già presa. L’ennesimo inganno!
Nella notte tra il 20 ed il 21 agosto 1968 l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia! Con quella schiacciante esuberanza di forze! La stampa di quei regimi costruì la metafisica narrazione… “dei fratelli di classe che aiutano il popolo cecoslovacco a difendere le conquiste socialiste”!!!
I dirigenti del Partito Comunista Cecoslovacco, Dubcek in testa, vennero arrestati e portati a Mosca. Il congresso straordinario del P.C.C. – svoltosi in clandestinità – ribadì la linea riformista. Ma col successivo “Protocollo di Mosca“ si annullarono le decisioni di quel congresso. Quasi tutti i dirigenti cecoslovacchi furono costretti alla umiliazione estrema di sottoscriverlo! In cambio rimasero (temporaneamente…) al loro posto. Ma oramai era finita! Il 17 aprile del ’69 si chiuse un altro cerchio: Dubcek fu destituito e sostituito da Gustav Husak, che era stato un suo collaboratore!! Dubcek fu degradato da Segretario Generale a Dirigente forestale! Quando questo avveniva Palach era già morto da alcuni mesi. Aveva perso la speranza, se non quella scaturente da un gesto estremo!
La reazione della sinistra occidentale fu timida, a volte pavida, altre volte cinica e, nonostante qualche importante eccezione, mediamente insignificante. Eravamo nel pieno svolgersi della contestazione studentesca (e poi operaia); “i nemici da battere“ erano la struttura di classe, il capitalismo, il fascismo; la società autoritaria, repressiva, patriarcale. In quell’Europa annebbiata dallo scontro ideologico non si voleva (o poteva…) vedere sino in fondo cosa accadeva oltre cortina. Una di quelle importanti eccezioni fu certamente rappresentata da Rudi Dutschke, leader sessantottino della SDS (morirà nel ’79 per i postumi di lungo periodo di un attentato neonazista), per il quale non bastava la statizzazione dei mezzi di produzione. Si doveva creare l’uomo nuovo attraverso una rivoluzione della coscienza, la partecipazione, la democrazia diretta.
Personalmente ricordo di aver partecipato a tante manifestazioni contro la guerra in Vietnam (ed era giusto), ma a nessuna contro la repressione nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”. A sinistra non se ne organizzavano! Nessun “movimento internazionale proletario che appoggiasse i processi di riforma verso una autentica democrazia partecipata e socialista”, come auspicava Lucio Magri in un celeberrimo articolo pubblicato sulla rivista del Manifesto nel settembre del 1969: “Praga è sola”. Articolo e metodo (“frazionismo”….) che fecero traboccare la goccia dal vaso determinando l’espulsione del gruppo dal PCI.
Il PCI del ’68 non era più quello del 1956, quando si schierò a favore dell’intervento sovietico e contro “i controrivoluzionari d’Ungheria” (Giuseppe Di Vittorio, Segretario Generale della CGIL, invece manifestò la sua disapprovazione). Il PCI del ’68 – con Luigi Longo – condannò l’invasione di Praga. Ma fu una critica tiepida, non una rottura radicale. Non vi fu (ne vi poteva essere…) una visione di riforma dal basso di quel sistema, appoggiato da un movimento internazionale dei lavoratori. Per Longo “la reazione russa era stata un grave errore perché non appariva fondata l’ipotesi catastrofica posta alla base dell’intervento militare, cioè quella di un crollo del potere socialista, dell’abbandono da parte della Cecoslovacchia del campo socialista”. Che significa? Che se l’ipotesi invece di essere catastrofica fosse stata reale l’intervento militare poteva essere giustificato?
La storia non si fa con i se…, ma anche con i se! Se l’esperimento cecoslovacco fosse andato avanti sarebbe stato comunque un punto di riferimento. Forse Mikhail Gorbachev, 20 anni dopo, avendo un modello o dei punti di riferimento a cui ispirarsi e sui quali riflettere, non sarebbe rimasto incollato al muro di gomma dei conservatori e dei reazionari. Forse.
Cosa resta oggi della memoria di Jan Palach? Continua ancora ad agitare o rimuovere la nostra cattiva coscienza? Viene strumentalizzata?
In un interessante articolo di Guido Crainz, comparso su Repubblica dell’8 gennaio 2019, si può leggere che quella di Palach fu una altissima battaglia per la democrazia, “dunque cosa c’entra con tutto questo l’estrema destra italiana (ed europea) che – oggi come allora – tenta di impadronirsi vergognosamente del nome di Palach? Una destra favorita allora dalla insensibilità di larga parte della sinistra per le speranze della Primavera di Praga e oggi dalla crescente dissoluzione della memoria e della storia”. Ed ancora: “Forse nell’Europa del 2019 dobbiamo anche chiederci se – prima e dopo la caduta del Muro – siamo stati realmente vicini a chi si batteva in quei paesi per una vera democrazia dal volto umano. Davvero non potevamo fare di più – l’Europa non poteva fare di più – per contrastare l’avanzata delle democrazie illiberali (Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria) oggi trionfanti? Parla ancora a noi, Jan Palach, e non solo al noi che eravamo cinquanta anni fa”.
JAN PALACH
(Praga, 11 agosto 1948 – Praga, 19 gennaio 1969)
Aveva poco più di vent’anni Jan Palach, lo studente che nel gennaio di cinquant’anni fa compì il gesto più drammatico dandosi fuoco in piazza San Venceslao, in una Praga resa sempre più cupa da mesi di invasione e dallo spegnersi della speranza. Faceva parte di una generazione che aveva creduto nel «socialismo dal volto umano» di Alexander Dubcek, e vedeva quella speranza inabissarsi: il mio gesto è volto «a risvegliare la gente di questo Paese», lasciò scritto «Jan Palach ha messo davanti a noi uno specchio impietoso», scrisse l’Unione degli studenti, mentre il settimanale degli scrittori pubblicava una poesia potente: «E qui scalpitano i tori di Picasso / e qui gli elefanti di Dalì marciano su zampette di ragno / e qui rullano i tamburi di Schönberg / e qui i Karamazov portano il corpo di Amleto». Morì dopo tre giorni di sofferenze e i suoi funerali videro una folla commossa ed enorme: «Corre il dolore bruciando ogni strada / e lancia grida ogni muro di Praga – per citare una splendida canzone di Francesco Guccini – (…) dimmi chi era che il corpo portava / la città intera che lo accompagnava…».
Altri gesti segnarono drammaticamente la fine della speranza: «Il suicidio di Palach, di Zaijc e dei molti altri che non dobbiamo dimenticare – scriveva Angelo Maria Ripellino sull’Espresso – è un grido lacerante che soverchia il fragore dei carri armati, un grido di orrore contro una realtà inaccettabile imposta con la violenza».
Di lì a poco la “normalizzazione” sovietica si imporrà definitivamente e il regime cercò perfino di svilire e infangare il gesto di Jan. Inutilmente, perché anche nel suo nome continuò la battaglia per la conquista della democrazia, svanita ormai l’illusione che il “comunismo reale” fosse riformabile. Continuò nella memoria, nonostante il regime avesse sin rimosso la sua tomba, e continuò poi con Charta 77, fondata da Václav Havel e da altri. Havel sarà arrestato per l’ultima volta il 16 gennaio del 1989, aveva deposto fiori in piazza San Venceslao a ricordo del gesto di Palach. Nel dicembre di quello stesso 1989 sarà presidente della Repubblica federale cecoslovacca mentre ministro della giustizia sarà una donna, Dagmar Burešová: da avvocato aveva rappresentato la famiglia di Palach contro le calunnie del regime.
Una altissima battaglia per la democrazia, dunque: cosa c’entra con tutto questo l’estrema destra italiana che – oggi come allora –tenta di impadronirsi vergognosamente del nome di Palach? Una destra favorita allora dalla insensibilità di larga parte della sinistra per le speranze della “Primavera di Praga” e oggi dalla crescente dissoluzione della memoria e della storia. Favorita, anche, da una più ampia “destra governante” che ostenta distaccata noncuranza di fronte alle violazioni della decenza e dell’umanità.
Una destra vicina alle forze che in Cecoslovacchia, in Polonia, in Ungheria e altrove hanno sconfitto le speranze di rinnovamento democratico e che oggi vorrebbero cancellare anche i suoi eroi. Da qui occorrerebbe partire, perché forse non basta indignarsi per la speculazione vergognosa delle nostre destre o ricordare Palach come merita (questo giornale non ha mai mancato di farlo). Forse nell’Europa del 2019 dobbiamo anche chiederci se – prima e dopo la Caduta del Muro – siamo stati realmente vicini a chi si batteva in quei paesi per una vera «democrazia dal volto umano». Davvero non potevamo fare di più – l’Europa non poteva fare di più per contrastare l’avanzata delle “democrazie illiberali” oggi trionfanti? Parla ancora a noi, Jan Palach, e non solo al “noi” che eravamo cinquant’anni fa.
Guido Crainz – Repubblica 8 gennaio 2019