Monreale, 16 luglio 2017 – Dopo una pausa durata alcuni anni Chiara Bucolo riallaccia le fila interrotte della sua rubrica musicale. “When the music is over” è un’esplorazione nei meandri delle esperienze musicali meno note. Un viaggio, a cadenza quindicinale, per conoscere ed apprezzare artisti sconosciuti al grande pubblico, ma che meritano di essere ascoltati per la carica di innovazione che è riscontrabile nelle loro sperimentazioni artistiche. “When the music is over” nasce come una rubrica molto specifica, rivolta ad un pubblico di nicchia, ma che risponde alla linea editoriale di fornire ai lettori, anche in un giornale locale, spunti sempre nuovi di riflessione che possano allargare orizzonti e competenze, anche in ambito musicale. Buona lettura.
Da quando Spotify Premium ha introdotto la funzione “radio automatica” alla fine dell’ascolto dei brani salvati nella propria libreria, ho compreso ancora di più quanto la mia conoscenza musicale fosse nulla in confronto a ciò che di musicale esiste. E la cosa mi ha entusiasmata un sacco: nulla, o quasi, mi esalta come ascoltare musica per me nuova e particolare, come l’electrogaze ipnotica di Tycho o il trascinante “cabaret dark-rock” dei Dresden Dolls (non sfuggiranno ad una mia futura recensione, mie capacità permettendo!). Devo dire di aver sottovalutato la capacità di questa app di saper riconoscere i miei gusti e sapermi proporre artisti affini che non conosco, tra coloro che mi hanno fatto pensare “oohh!” al primo ascolto c’è il protagonista della recensione di oggi, il bluesman Marvin Pontiac.
Di Pontiac, afroamericano nato nel 1932 a New York da padre senegalese e madre ebrea newyorkese, come ci racconta il booklet del disco, possiamo intuirne le fattezze dalla foto di copertina del disco: essa raffigura un uomo dalla pelle scura a cui una lunga veste bianca copre il corpo e un copricapo, anch’esso bianco che ricorda un turbante, la testa; non possiamo distinguere i lineamenti del viso, in quanto la foto è sfocata, suppongo volutamente, quasi ad anticipare il senso di “ambiguità” che caratterizza le sonorità del disco. Marvin, sempre da quanto si legge dal libretto del disco, non ha avuto una vita semplice, da buon bluesman quale è: benedetto da una vocazione per la musica sin da piccolo, ha vissuto sballottato tra il Mali e Detroit, dove a fatica è riuscito a farsi una fama come suonatore di armonica a bocca, facendo la fame e vivendo per strada tra una scazzottata e l’altra, in cui a volte erano coinvolti altri musicisti blues di rilievo.
Una di queste risse lo vedrà scontrarsi con il rivoluzionario dell’armonica a bocca Little Walter, per un diverbio riguardante la paternità dello stile unico di Marvin, evento che porterà Pontiac (vero cognome Tourè) ad esiliarsi dal mondo della musica fino al 1952, quando pubblicherà per l’indipendente Acorn Records il singolo I’m A Doggy: il brano è un blues graffiante, con l’armonica e la voce graffiante e piena di Pontiac come protagoniste, accompagnate da un ritmo lento e cadenzato, accattivante, “classicamente” blues.
Il brano diventa un successo di pubblico insieme al secondo singolo Pancakes, caratterizzato da una commistione di sonorità africane e blues, fusione che sarà propria dello stile di Pontiac. Il nostro musicista però non farà in tempo a godersi il successo come si deve, in quanto nel 1970 inizia a mostrare gravi segni di segni di squilibrio mentale, squilibrio che affliggerà la sua vita fino alla morte avvenuta nel 1977, a causa di un autobus che lo investe in corsa.
The Legendary Marvin Pontiac – Greatest Hits sarà il suo unico disco, pubblicato postumo, disco che racchiude i suoi più belli e spontanei gioiellini. Tutto molto interessante, peccato che Marvin Pontiac non è mai esistito: è tutta una messa in scena dell’artista, attore e musicista americano John Lurie, che ha plasmato il personaggio nei minimi dettagli, tanto che si stenta a credere che sia solo un’invenzione: la selvaggia e quasi surreale vita di Marvin Pontiac da New York, musicista blues schizofrenico, diviene lo scheletro portante dell’album, si rivela canzone dopo canzone, dalle già citate I’m A Doggy e Pancakes a Runnin’ Round, sensuale, dal beat e dal ritornello irresistibile grazie agli accordi di chitarra; passando per Power, Little Fly, No Kids, brani dal sapore di bassifondi newyorkesi e paesaggi urbani del Senegal, ora scanzonati, ora beffardi, ora amari e ora tutte e tre le cose insieme.
John Lurie dona a Marvin Pontiac un’identità e una voce, una voce roca, ora sommessa ora più dura, e crea un disco blues ammaliante, fatto di luci ed ombre di una musica semplicemente affascinante. Si potrebbe dire che, con l’espediente del personaggio Marvin Pontiac, Lurie abbia voluto donarci un suo personale compendio della storia della musica blues afroamericana, ma personalmente non affiancherei questo disco ai lavori dei grandi musicisti del genere, nonostante di base ne riprenda gli stilemi, c’è un qualcosa di assolutamente unico e inafferrabile che si dipana dalle melodie di questi brani e arriva alle orecchie, al cuore e allo stomaco, e il fatto che lo scoprire che Pontiac è un’invenzione non rompa di un millimetro tutto questo è già indicativo della potenza e dell’intensità di questo splendido album.