Monreale, 9 aprile 2017 – Le azioni quotidiane che delineano il percorso dell’esistenza di ciascuno di noi, ci inducono continuamente a operare delle scelte e a prendere decisioni, in ogni ambito della nostra vita. Scegliere, quindi, può definirsi un processo complesso, continuo e inarrestabile, che comporta il coinvolgimento della capacità di giudizio, del saper valutare individui e situazioni in maniera, più o meno, oggettiva, ma anche, in parte, dell’intuito personale, della cosiddetta “prima impressione”.
Le nostre scelte, però, dimostrano a volte come ciò che avevamo considerato, giudicato, valutato e intuito in un determinato modo, non appare, in realtà, come “il film ideale” che avevamo proiettato, forse non del tutto consapevolmente, alla nostra mente. Questo perché il nostro giudizio e il nostro intuito, che a volte reputiamo infallibile, spesso non riescono a rispondere a criteri sinceramente equi e veritieri e ciò comporta il verificarsi della cosiddetta “tranvata”: lo svarione cognitivo e di valutazione che si abbatte, spesso anche con un buon carico di delusione, nei nostri percorsi di vita, poiché risulta essere un’eventualità neppure tanto rara che qualcosa, priva di riflessione autentica, ci impedisca di avere una lucida onestà intellettuale e di giudizio, una razionalità oggettiva…la difficoltà sta nell’individuare e definire questo “qualcosa”: di cosa si tratta esattamente?
Probabilmente l’errore di valutazione è, spesso, imputabile a una sorta di distorsione dello schema mentale che abbiamo strutturato, e con il quale valutiamo le situazioni del nostro vissuto, causata principalmente dalla presenza di pregiudizi, a volte quasi inconsapevoli, che ci espongono ai cosiddetti “abbagli”.
Quante volte ci capita di giudicare una persona come arguta perché influenzati, soprattutto, dal suo aspetto gradevole? Oppure a scuola, quante volte si giudicano positivamente o al contrario negativamente studenti attraverso “sensazioni a pelle” per come si atteggiano, si vestono o parlano, che coinvolgono una parte ancestrale di tutti noi, che compromette il giudizio equo e reale? Tale distorsione ha un nome specifico, si chiama: “Effetto Alone”.
L’Effetto Alone ci induce a valutare i nostri simili, attraverso dati empirici e superficiali, direttamente legati ai nostri desideri, alle nostre impressioni più soggettive: alcune persone, ad esempio, ci risultano particolarmente attraenti e simpatiche e, quindi, supponiamo, per analogia, che siano anche intelligenti, amichevoli…insomma ricamiamo su di loro un buon giudizio morale, combaciante solo con le nostre impressioni epidermiche, quindi poco oggettive e reali. Molti sfruttano tale “debolezza” generalizzata, cercando di rispondere non alle richieste concrete e ovvie della gente, ma ai loro bisogni “di pancia”, quelli determinati più dall’istinto, dal malcontento che dalla necessità.
I politici, per esempio, chi più chi meno, conoscono molto bene i vantaggi di creare l’Effetto Alone e riescono a far presa su di esso, giocando con una comunicazione persuasiva e coinvolgente. Cercano di apparire alla mano, cordiali, sorridenti, come una sorta di amici, mentre, nella realtà, parlano di argomenti che spesso sono privi di sostanza, di prospettive aleatorie, irrealizzabili. Rincarano la dose del malcontento, pubblicizzando alternative effimere, facendo voli pindarici e giri di parole, ma schivando accuratamente le domande veramente concrete, anche se incalzanti. Eppure le persone tendono a credere che la loro politica sia efficace ed efficiente, solo perché essi si costruiscono un’immagine efficace ed efficiente. Le dichiarazioni roboanti e demagogiche, parlando alla sfera meno razionale della persona, coinvolgono e attraggono di più rispetto a un’analisi realistica, fondata su dati oggettivi, sui bisogni autentici, sulla complessità delle situazioni, condotta con pacatezza e con un eloquio coerente con la realtà obiettiva. In fondo, se ci si pensa bene, l’esercizio di una “fascinazione” accattivante si nutre dell’Effetto Alone come di tale Effetto si nutre, in alcune occasioni, la competizione, in tutte quelle situazioni di contrasto fra persone, in cui appare completamente “paralizzata” la capacità di riconoscere all’altro le sue qualità. Per tale motivo molta gente, probabilmente insicura delle proprie possibilità d’azione, cerca di superare un individuo diverso da sé, le cui capacità, in un certo senso, possono mettere in crisi le proprie, non attraverso l’onestà della consapevolezza dei risultati apprezzabili da esso conseguiti, per poter avviare una prospettiva centrata su una “competizione positiva”, ma, sostanzialmente, attraverso il sottile e perverso esercizio del disconoscimento di tali capacità, collocando una parte di esse sotto i riflettori della “cattiva luce”, quella che non fa distinguere i difetti dalle qualità. Il tutto solo per conquistare un primato assoluto e assolutista, che distrugga l’immagine dell’eventuale contendente, che diventa, pertanto, avversario da annientare a colpi di pregiudizi e false valutazioni, attraverso l’alone ovattato di un effetto effimero, che spesso tutti noi disconosciamo, ma che in realtà è presente in molte delle nostre azioni…Non siamo sempre presenti alla realtà, perché spesso essa ci fa paura.