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Salvo Piparo, il cuntastorie palermitano che custodisce la memoria. L’intervista

"Il cunto è il cuore di ciò che faccio, lo faccio mio e sono io"

I cuntastorie, i custodi della memoria, affabulatori ed anche un po’ giullari, erano e sono delle figure affascinanti per la nostra amata isola. Capaci di catturare l’attenzione sia degli adulti sia dei più piccini, trasportandoli ed immergendoli nella storia.
Tra i cuntastorie siciliani spicca il nome di Salvo Piparo.
Un palermitano doc nato a Palermo il 18 dicembre 1978. Fin da piccolo, nel quartiere di Ballarò, è affascinato da tutto ciò che lo circonda. Qui nasce la sua passione nel raccontare la Sicilia, la sua storia, le sue leggende, le sue vie, i suoi negozi, le sue chiese, le sue piazze, i suoi castelli, i suoi palazzi, le sue botteghe… Le rievoca attraverso la tecnica del “cunto”. Salvo Piparo possiede un’anima satirica, graffiante e sarcastica, fuori dal comune.

Cosa è il “cunto”? Come nasce?
“Questa è una domanda importante per noi cuntastorie, perché il “cunto” è l’arte di ricordare. Puoi ricordare persone che non ci sono più e riportarle in vita. A me è successo proprio questo. Mi mancava tanto una persona e ho cominciato a raccontare tutto quello che faceva. Raccontavo di lui prima in famiglia, poi “cu chiddi ru latu” e poi con la gente della piazza… mancava a tanti. Quest’uomo mi ha insegnato tanto ed anche da morto mi insegnava qualcosa. Mi insegnava a raccontare. Quando parlava aveva le sue pause come tutti i siciliani, i quali hanno delle pause forti ed importanti. Dentro alle pause vedi ed immagini un cinema dei nostri nonni e la nostra terra, la Sicilia. I nonni rappresentano le proiezioni cinematografiche. Così ho iniziato ad assaporare queste pause per far rivivere i ricordi di quest’uomo che è volato in cielo. Improvvisamente, mi sono reso conto che in qualche modo stavo raccontando, stavo narrando. Inizialmente il mio pubblico era la famiglia, poi è diventato un pubblico amicale e poi ancora è diventato un pubblico vero. Quando racconto, sento il respiro della gente”.

C’è differenza tra cuntare e recitare?
“Un narratore, quando racconta, non racconta mai a copione. Ecco che cos’è il cunto. Il copione lo puoi leggere, lo puoi fare tuo, però poi devi scordarti il copione, devi prendere solo quello che ti serve. La trama, i personaggi e le battute, le fai tue. Il copione diventa parte di te, ti fa sostanza. Il cunto è il cuore di ciò che faccio, lo faccio mio e sono io.

I baroni della cultura, ti dicono che questa cosa “unnè nienti”, “ma stai facendo una cosa buona?”, “nienti, va bè scuoirdatilla”. Quante volte succede, fai una cosa che ti piace e c’è qualcuno accanto a voi coi capelli bianchi che ti dice: “no va be nienti normali”, anzi “pò veniri megghiu”. Ma quello che fai è eccezionale, è l’impronta del tuo talento. Mi sono innamorato della narrazione, di un modo di fare teatro, ma non pensavo di fare teatro. Poi ho messo i cocci insieme e ho portato in vita quell’uomo, che mi ha insegnato a raccontare e mi ha dato il primo imprinting. Ho iniziato a raccontare la Sicilia con le sue contraddizioni. Quando parlo di contraddizioni significa “ca ririemu e chiancemu e mentri chiancemu ririemu” ed è questo che voglio dire: la Sicilia è una terra di contenuti.

Dobbiamo raccontare le storie e farle diventare storielle allegre, leggere, ma senza rinunciare ai contenuti, perché la Sicilia ha un sacco di zavorre. Se queste zavorre diventano contenuti, si possono tramandare come le tradizioni. I contenuti sono importanti per i giovani, perché sono le basi, ci aiutano ad impugnare i valori. Ecco perché non dobbiamo rinunciare ai contenuti. Io posso farti ridere, ma la mia risata “unn’avi a essiri vacanti”, la mia risata deve avere un senso. Quel senso te lo devi portare a casa. Non voglio fare il padre ricordatore, non ti devo insegnare niente. Questa terra ha tutto, ma ci hanno convinto che questa terra “unnavi nienti” e quindi “nui avutri ammuttamu i pieri, tiramu a campari”, invece noi abbiamo il sole. Attraverso il racconto, voglio trasmettere questi tesori alle nuove generazioni, altrimenti si rischia di parlare “ammuzzu”. “Ammuzzu (admuzum)” è una parola bellissima, ma si rischia di essere vani”.

Il cunto si adatta a qualsiasi storia?
“Sì. Nella storia dei paladini di Francia emergono dei valori. Valori che i nostri nonni da analfabeti ci hanno tramandato. I nostri nonni si sono innamorati di un testo che avevano nei loro comodini. Un testo che non avevano mai letto. Quel testo, però, lo conoscevano a memoria perché si raccontava. Questa storia era la bibbia della strada, in cui emergono due valori, il coraggio e la vana gloria. Non c’è cosa peggiore della vana gloria e non c’è cosa peggiore di qualcuno che non si misura con il proprio coraggio. Non nasciamo tutti coraggiosi, ma ci sono tanti livelli, tanti dossi e tante prove da superare. Allora il coraggio ti viene, ti metti alla prova. Mettendoti alla prova. Devi misurare il tuo coraggio, ma se ti arrendi in partenza, se rendi vano tutto e parri parri e ti lamenti, tutto ciò diventerà vana gloria e non c’è cosa peggiore. La vana gloria è che ci riempiamo la bocca di cose vane, sono fuffa, vento, “canigghia o ventu”. Ciascuno di noi deve impugnare il proprio talento e nessuno ci deve convincere “no va bè tanto ninnamu a ghiri tutti ri ca’”. “Cu nesci arrinesci”. Io faccio teatro, ma non voglio fare l’attore. Io voglio raccontare le storie, ognuno di noi è portatore sano di teatro. Se metto insieme tutte le storie di questi uomini che ho incontrato, già è un teatro ed è un teatro della narrazione. Non ho bisogno delle scenografie, di sedie, di castelli, di cose pittate, di dame, di cavalieri, di carretti siciliani perché racconterò tutto questo. Racconterò qualcosa che ci siamo persi, ma che posso far vedere. Quante cose ci siamo persi, “ni persimu u scieccu cu tutti i carrubbi”, “ni persimu a rutta”, “ni persimu la Conca D’Oro, che arrivava finu a Murriali e ca’ addivintò un centru cummirciali”. Quante cose ci siamo persi, qualcuno di noi ha perso pure la dignità e quella non si può ritrovare. Una cosa però na “ristò, a merda ri cavaddi”, che porta fortuna ai teatranti. “A merda ri cavalli”, un tempo trascinavano carri colorati all’epoca di Carlo Magno. L’arte della narrazione, del cunto, è un’immagine. Se sono bravo a focalizzare quest’immagine tu, spettatore, la vedrai. Chi racconta deve credere in questo racconto, perché se non ci credi e fai “u pappaadduzzu ca reciti a memoria i così ru copioni”, queste cose diventano vane.
I grandi attori, sono grandi, perché recitano mentre ti raccontano quel personaggio. Poi ci sono gli altri attori, i quali, invece, recitano e buttano le parole al vento. L’attore fa un grande lavoro interiore per diventare quel personaggio. Invece, il cuntastorie fa un lavoro interiore per raccontare il personaggio in terza persona, ma parte da se stesso. Ho raccontato tante storie, partendo sempre da qualcosa che mi accomunasse ad esse. Quando racconto di Garibaldi, la mia storia inizia da una lastra marmorea (che era sempre sotto i miei occhi a Palermo). Ciò mi ricorda che da lì passò Garibaldi e che fa parte del mio percorso giornaliero. Ecco com’è diventato qualcosa di familiare. “Picchi iu runni isu l’uocchi viru sta lastra” dove Garibaldi dice: qui dormì Garibaldi mentre si battagliava al piano di porta di Termini, qui riposò Garibaldi con le sue stanche membra. “Ruirmieva sempre, Garibaldi, mentri l’auvutri battagghiavanu”. Allora che eroe è.
È un grande bluff e l’Italia si unisce nel nome del bluff. Quindi potremmo raccontare che la storia è scritta sempre dai vincitori, mai dai narratori”.

Quali sono i temi che prediligi?
“Quello che prediligo è il riscatto sociale, che per me può avvenire in virtù dell’amore. Non dobbiamo perdere la speranza di innamorarci, dobbiamo innamorarci della vita, delle persone che ci possono raccontare le loro storie. Se non riesco più ad innamorarmi, divento un narratore industriale. E se diventassi un narratore industriale, non mi innamorerei delle persone che incontro, non potrei raccontarle con la genuinità. Io sono un ricercatore di sensazioni, le faccio diventare parole, le cucio insieme e poi ci metto dentro l’anima. Tutto questo diventa un cunto, il quale diventa metrica, qualcosa che non può annoiarti. Il riscatto sociale è un tema necessario perché siamo bombardati da una televisione che ci vuole tutti allineati. Una televisione che ci bombarda con tantissime cose per rincoglionirci, rintontirci e farci diventare tutti uguali. Appena si accende la tv, si vede gente che piange per finta ed è questo il punto. Tu accenderai la televisione e vedrai Maria De Filippi dove troverai qualcuno che piange. Tutto ciò non è più credibile. Non si possono trasmettere emozioni, attraverso trasmissioni come il Grande Fratello o i vari talk politici. Questi programmi stanno peggiorando la società. Infatti, la gente non va più a votare, vincerà ancora l’astensionismo. I politici non sanno più parlare alle persone, invece, i cuntastorie sì.

Il cunto è una forma espressiva ancora attuale?
“Sì, ma sta cambiando pelle coi social. Sono nati gli influencer, i quali non sono degli intellettuali. Sono falsi miti che stanno rovinando i nostri ragazzi. Spero che questa gente si guardi allo specchio e la finisca di prendere in giro, anche se stessi. Ma la colpa è anche del dio denaro.
Io ho un bambino. Sul web ci sono tanti giochi che potrebbero comprometterlo, ma sto cercando di dargli una base. Quando mio figlio da piccolissimo piangeva, lo facevo giocare con un pupo, mentre raccontavo una storia. Gli ho raccontato la Festa dei Morti, i pupi di zucchero… Noi dobbiamo narrare queste storie ai nostri figli affinché loro possano tramandarli ai loro figli. Così anche noi rimarremo vivi nella memoria dei nostri nipoti e di coloro che verranno dopo. Non si può ridurre tutto al cellulare. Attenzione dobbiamo rispettare i nuovi linguaggi delle nuove generazioni, ma le nuove generazioni non devono dimenticare i linguaggi antichi perché la contaminazione è importante. Un linguaggio non può ucciderne un altro. Devo tramandare a mio figlio la bellezza del suono del dialetto siciliano. Devo dirgli all’interno del siciliano c’è il francese, il greco, lo spagnolo, la toponomastica araba, la Kalsa, Ballarò… Ballarò in arabo significa mercato degli specchi. Anche a Monreale c’è una storia. C’è Guglielmo il Buono e Guglielmo il Malo. Queste storie bisogna raccontarle in maniera sanguigna. Queste storie hanno un loro linguaggio. Si può parlare siciliano senza essere volgari, questo è ciò che mi hanno insegnato da bambino. Il cunto è qualcosa di poetico, è un racconto sanguigno”.

Qual è la forza di un cunto?
“La forza di un cunto è il sentimento di una parola sulla metrica. È ciò che scegli di raccontare con forza.
Se racconto la storia di compare Nofrio, la racconto con una metrica che ci riporta all’allegrezza. È una maschera di Palermo che parlava con la voce “al cannavazzo”, quindi questo racconto ha una metrica allegra. Ma se racconto la strage di Capaci, già chiudo gli occhi, vedo questa strage, cos’è successo, il mare di fronte, quell’autostrada come cambia colore, diventa livido… Adesso sto improvvisando: Vedi cos’è successo? Ho chiuso gli occhi, mi ritrovo già lì, in quel luogo, poco prima della galleria, dove scoppia l’autostrada in un attimo. Mi trovo lì e riesco a raccontarti questa storia in maniera sempre diversa, ma la trama è quella. Quindi posso raccontarti per dieci serate lo stesso punto della strage di Capaci, ma sempre in maniera diversa. È proprio questo il punto, non vado mai a copione perché mi annoio terribilmente. Noi cuntastorie non siamo tutti uguali, non c’è un modo migliore nel raccontare una storia. Ognuno ha il suo modo. Io ho il mio e per me è il migliore. Poi ci sono altri attori teatrali, i quali fanno uso di un’altra tecnica. Di quella tecnica ne hanno fatto la loro spada e per loro è perfetta ed è insostituibile”.

Qual è la differenza con la sua rappresentazione in teatro?
“Se prendi il cunto, lo metti sul palcoscenico e lo vesti di qualcosa divino, allontanandolo dalla gente, tu non gli hai reso merito. Il cunto deve rimanere tra la gente, anche a teatro. Non lo innalzo, deve avere sempre una matrice popolare, il cunto è voce di popolo”.

È una tradizione che nuove generazioni stanno adottando?
“Le nuove generazioni non stanno adottando il cunto perché i nuovi baroni l’hanno nascosto. L’hanno nascosto anche a me. Frequentavo l’università di Palermo e ho chiesto dei libri per studiare il cunto, ma non li ho avuti. Poi ho capito cosa fosse, attraverso la pratica. “Iu tu puozzu spiegari a paruoli come nuotare, ma quannu tu ti iecchi ‘nta l’acqua” sperimenti per davvero”.

Dopo Salvo Piparo, il cunto continuerà ad essere raccontato?
“Il giorno in cui chiuderò gli occhi avrò già dato la possibilità ad altri di farlo suo, compreso mio figlio. Mio figlio, mi guarda e mi assiste durante le prove e già ha capito cos’è la metrica”.

Ti senti una grossa responsabilità in tal senso?
“Non so quanto quantificarla. Il mio compito è di rimanere coi piedi per terra e di lavorare tanto seriamente. Oggi, tutti vogliono fare ridere, facendo cabaret. Fortunatamente so qual è il mio ruolo. Se devo farti ridere, devo farti ridere, mentre ti racconto qualcosa. Quindi la responsabilità è che le risate non devono essere vuote. Devono essere piene d’impegno, d’ironia e di sarcasmo. Noi siciliani scaturiamo la risata se diciamo le cose al contrario. Se penso come farti ridere, devo raccontare le cose al contrario dicendoti chi “sugnu lagnusu”, “un vuoghhiu travagghiari”, “aiu tutti i malatie e runni mi pigghiavu sti malatie?” “Ospitali, picchi prima ri trasiri Ospitali malatie unnavia e poi mi vinniru tutti i malatie”, “mi misi l’acqua rintra e u rubinettu fora” perciò in Sicilia si ride così, parlando al contrario”.

Tocca a te trovare un erede?
“Non cado nel tranello. Faccio sentire il cunto a tutti. Tutti possono farlo, perché il “cunto” è patrimonio di tutti. Ognuno di noi ha la responsabilità di provare un suo modo per raccontare. Se tu ascolti mentre faccio “u cuntu” e mi copi, non abbiamo fatto niente. Ma se tu hai capito quello che faccio e con quale sentimento lo faccio, tu lo fai tuo. Per raccontare devi trovare il tuo sentimento e non puoi copiare un altro cantastorie, altrimenti diventi bizzarro e pazzesco. Quindi, per fortuna, non ci saranno solo comici in Sicilia”.

Ti piacerebbe che tuo figlio fosse il tuo erede?
” Sì, mi piacerebbe tanto. Ho visto anche tanti ragazzi coi lampi negli occhi e mi piacerebbe trasmettere a loro l’arte del cunto. Questi ragazzi, che sono cresciuti in strada, hanno quello che serve al cunto, hanno la grinta. Mio figlio è un bambino dolce e racconterà tantissime storie molto dolci. Ma voglio anche che i figli dello Zen, di Borgo Nuovo e così via possano fare “il cunto”. È importante che lo facciano, così “un sinni vannu a rubbari”. Grazie al “cunto” mi sono salvato dalla strada, sono nato in un quartiere popolare”.

Quando, come e perché hai cominciato?
“Ho cominciato per ricordare la memoria di mio nonno. In giro, vedo molti ragazzi di Palermo emulare le canzoni napoletane, perché sono di moda. Invece, qualcuno gli deve far vedere cosa possono fare coi loro mezzi. Intanto guardarsi dentro e dire io non sono napoletano, ma sono palermitano, sono fatto di questo, questo e questo, aspetta “ca curru chi me vrazza e chi me ammi”. Ciò che voglio dire è che se ogni ragazzo riconoscesse il proprio talento, potrebbe prendere un pupo e iniziare a sperimentare le voci. Lo sai che i pupi possono dire tutto? Ma gli uomini no. A noi ci scattano le querele e ci arrestano, ma i pupi possono dire tutto. Solamente questo deve solleticarti, non sei tu a parlare, è “u pupu”. A quel pupo gli stai dando la voce. Quel pupo può dire tutte le malefatte di Sicilia e “cu ci po’ diri nienti o pupu, sempri un pupu è, alla fini u’ sai chi dici u pupu, u pupu pupia”. Questi ragazzi sono pervasi da un fuoco. Se lo mettono a disposizione dell’arte, l’arte li può ripagare. Molti di questi ragazzi pensano che per diventare famoso nel mondo dello spettacolo, devono fare per forza i mafiosi o parlare siciliano. Si può parlare siciliano senza essere “annacusu”. Puoi fare un provino senza fare “u’ spadda nghissata”, non per forza devi dire “minchia u’ sai ca’ ti sparo in testa”, non è questo. I siciliani non possono essere conosciuti fuori dalla Sicilia col cliché dei siciliani. Pensa ad un siciliano che fa una cosa semplice, stacca un ramo da quella pianta, ci leva le foglie e fa una spada di legno che diventa la sua bacchetta con cui darsi il tempo, mentre racconta una storia. Racconta come si cucina l’uovo alla coque detto anche “uovu ciurusu, pigghi l’uovu u’ metti rintra un tegaminu”, già è diventata musica. Ecco che cos’è il cunto.

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