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Gioacchino Crisafulli, una vittima di mafia poco ricordata

Il figlio Carmelo ci racconta l'omicidio che rimase a opera di ignoti fino alla confessione del mandante, a Gioacchino Crisafulli intitolata una via di Monreale

Era il 27 aprile del 1983 quando Carmelo Crisafulli, figlio di un appuntato dei carabinieri, rinviene il cadavere del padre nei pressi di casa propria. “Lo seppi perché rientravo a casa e vidi le macchine che bloccavano il traffico qua vicino e capii che qualche cosa era successo. Avevo immaginato che si trattasse di mio padre, sai la sensazione… il mestiere”, racconta Carmelo, anche lui da anni nell’arma dei carabinieri.

Appresa la tragica notizia, Carmelo inizia ad elaborare delle ipotesi, la prima delle quali vede come protagonisti dell’efferato omicidio due ladri di auto denunciati una settimana prima del fattaccio. Congettura che si rivelerà non perseguibile poiché “la criminalità comune non risponde così”, come sostiene Carmelo dall’alto della sua esperienza, sviluppata durante gli anni di servizio.

Nonostante la veneranda età e lo stato di quiescenza, sono l’istinto e l’amore per la professione che spingono Gioacchino a proseguire la battaglia contro la criminalità: “Mio padre, pur se pensionato, non si era mai fermato”, queste le parole del figlio, che nello sgomento generale pensa anche alla droga come possibile causa dell’omicidio: “Avevamo inseguito, io e mio padre, pochi giorni prima, una macchina con a bordo gente che spacciava”.

All’epoca dei fatti Carmelo Crisafulli aveva 30 anni, era all’ufficio di Polizia Giudiziaria alla Procura della Repubblica, con il grado di Maresciallo, e non dandosi per vinto cercò le motivazioni dell’omicidio del padre: “Ho indagato senza avere delega, nel senso che ho cercato di chiedere in giro, o quanto meno di sapere la motivazione, e loro me la fecero comprendere, facendomi rinvenire una cassa da morto trasparente con un pappagallo morto dentro e una croce sopra”. Cosa significa? “Ha parlato, ha visto, ha detto qualcosa”.

Un indizio che spinse Carmelo verso un altro sospetto. Magari il padre si era accorto della presenza di un latitante nella zona di campagna in cui risiedevano. La svolta alle indagini arriverà molto dopo, con il pentimento di Salvatore Cancemi, il quale asserì che era stato il mandamento Porta Nuova e Pagliarelli ad ordinare l’omicidio. A quel punto, ricostruendo i giorni precedenti all’omicidio, a Carmelo venne in mente che due giovani si erano avvicinati a casa, chiedendo una bottiglia d’acqua. Sembravano dei muratori di cantieri vicini. Dopo non molto tempo, il padre trovò la bottiglia intonsa a 50 o 60 metri di distanza; questo fatto suscitò qualche perplessità. E’ in quel momento che Carmelo intuì lo scopo della visita dei due uomini: “Erano lì per accertarsi, identificare chi era il bersaglio”.

La presunta colpa di Gioacchino fu quella di fermare un furgone in un luogo da cui non era solito che i camion uscissero, ovvero una serie di giardini demaniali di cui gli stessi Crisafulli possedevano le chiavi del cancello: “Ecco perché mio padre si era fermato per chiedere chi fossero e perché uscissero da lì”. Inoltre, aggiunge Carmelo: “Nella zona ci conosciamo tutti, per cui era strano. Una moto ape poteva entrare, un carretto, oppure a piedi si poteva entrare, ma questo mezzo così particolare che cosa portava? E infatti fu questa la domanda, lui interrogò queste persone, come si legge dagli atti del processo, e loro lo hanno pure preso in giro, sono riusciti ad andare via, e a quel punto si chiesero: <<Ma chi è? Ci ha visti, ci ha fatto delle domande, ci ha bloccati>>. E il mandamento decise l’esecuzione. Perché avranno pensato: <<questo è sbirro, ha un figlio sbirro, quindi se non è oggi è domani>>”.

Il Cancemi ammette i fatti nella deposizione, addossandosi le colpe di mandante dell’omicidio e indicando gli esecutori, ovvero due uomini del mandamento, tra cui Gioacchino Cillari. La risoluzione del caso, a questo punto, risulta essere chiara e lampante, perché la dichiarazione veniva dal capo mandamento che si assumeva le colpe.

All’epoca dei fatti, il giudice istruttore era Di Lello, che avocò a sé il processo. Giovanni Falcone non si occupò del reato perché non fu inquadrato come delitto di mafia. Inoltre, le indagini non si arenarono per negligenza, ma perché non c’erano spunti, nulla. Il processo era in un binario morto, si concluse con un’ordinanza del giudice istruttore a carico di ignoti, finché non venne fuori la storia del pentimento, che avrebbe consentito di riesumare il processo.

 

“Ricordo che quel fascicolo – racconta Carmelo – era alto 20 centimetri. Rianalizzarono tutto: l’autopsia, le foto, il sopralluogo. Da quel momento in poi combaciava tutto”. Oggi, a quasi quarant’anni dalla morte di Gioacchino, la via dov’è stato ucciso risulta a lui intitolata, a testimonianza delle brutalità commesse dalla mafia che troppo spesso hanno portato all’uccisione di gente perbene, come l’appuntato Crisafulli, a cui la nostra Redazione ha voluto dedicare questo articolo.

“Il riconoscimento da parte dello Stato secondo me serve moltissimo perché ti dà la forza di andare avanti, altrimenti si vive molto male. Non conoscendo le motivazioni, sei in un limbo. Se però si tiene la commemorazione, allora ti rendi conto che quell’uomo era perbene”.

Gioacchino Crisafulli riposa nel cimitero monumentale di Monreale, a lui è stata dedicata una via a San Martino delle Scale.

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