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Baronio Manfredi, il sacerdote monrealese che fu imprigionato al Palazzo Steri o Chiaramonte

Baronio Manfredi fu vittima della “Santa Inquisizione”

Visitare il Palazzo Steri o Chiaramonte che, tanti secoli fa, fu sede del Tribunale della Santa Inquisizione, diventò un mio pensiero fisso dopo avere scritto in un mio post la storia di un personaggio illustre a cui è intestata una via di Monreale, “Baronio Manfredi”. Lui era un sacerdote con la passione per la scrittura, ma anche molto battagliero e ribelle. Ed io, man mano che scrivevo di lui, lo ammiravo per questa sua indole molto originale per essere un sacerdote. 

Visse nel XVII secolo ed anche lui fu vittima della “Santa Inquisizione”. Praticamente, come tanti poveri Cristi, andò a finire nelle carceri dello Steri, dove rimase solo per un certo periodo perché dopo venne trasferito nelle carceri, prima di Pantelleria e infine in quelle di Gaeta, dove morì. 

Era un periodo in cui a Palermo c’erano molte ribellioni popolari a causa di carestie che tanta miseria avevano causato, in cui Manfredi si trovò coinvolto. Praticamente lui voleva aiutare la popolazione a superare questi loro problemi spingendola a farsi ascoltare dal viceré. Ma questa interferenza non sfuggì al Santo Uffizio che lo imprigionò con l’accusa di avere “istigato il popolo a dimandare al signor vicerè la facultà d’eleggersi due giurati popolari” (Treccani.it: cfr. lo storico Reina pag 154).

Mi organizzai per andare a visitare questo famoso palazzo soltanto con un pensiero: andare a vedere con i miei occhi la cella dove il Manfredi aveva lasciato questa testimonianza sulle pareti della sua cella.

Palazzo Chiaramonte-Steri

Arrivato il giorno della visita, ero molto trepidante ed emozionata di visitare quei luoghi dove erano stati rinchiusi e sottoposti a torture in nome di Dio molti prigionieri innocenti di grande valore artistico e intellettuale ma scomodi per le loro idee politiche e religiose. 

Mi causava molta angoscia soprattutto pensare che molti di quei prigionieri, sia innocenti che colpevoli, erano coscienti che, una volta entrati, solo la morte li avrebbe liberati dalla sofferenza della prigionia, spesso aggravata dalle torture. 

Il più delle volte nella piazza antistante il palazzo venivano barbaramente giustiziati davanti al popolo.

In queste occasioni venivano approntati dei palchi per le autorità, per il clero, per l’aristocrazia, e platee per il popolo. 

I condannati, dopo la pubblica sentenza, venivano giustiziati oppure fustigati mentre erano legati su un carretto che percorreva le vie della città con rulli di tamburi. 

Diventava tutto uno spettacolo!

Arrivata a Piazza Marina, iniziai a guardare dall’esterno questo palazzo, ci girai attorno e mi fermai ad osservare un enorme portone. Immaginai subito i nobili proprietari che uscivano da lì con la carrozza a quattro cavalli con valletti e servitori a seguito. Il palazzo sembra un castello. Fu fatto costruire nel XIV secolo dalla famiglia potentissima dei Chiaramonte, conti del vasto feudo di Modica, dei quali ancora oggi il palazzo porta il nome.

Quando entrai, dopo aver pagato il biglietto, mi accolse la guida. Una bella ragazza che si presentò col nome di Ornella. Io ero trepidante e le dissi subito che ero emozionata e che volevo visitare la cella dove era stato rinchiuso Francesco Baronio Manfredi.

Lei mi spiegò che si doveva seguire un certo itinerario e che ci saremmo arrivati.  

Prima di entrare mi portò nella corte, un grande cortile antistante il palazzo che oggi viene usato per eventi e spettacoli. 

La vera visita iniziò con l’aula Magna del palazzo, detta anche dei Baroni, una stanza enorme con un meraviglioso soffitto ligneo, dove ogni trave ha delle decorazioni che rappresentano scene di storia medievale. Ci inoltrammo nella “Sala delle armi”, una stanza in penombra per consentire la visione, sulla parete difronte, della famosa tela di Renato Guttuso, “La vucciria”. La sua visione era resa suggestiva dalla retroilluminazione, dalla penombra e da un sottofondo sonoro fatto dai  suoni del mercato, da voci che “abbanniano” la mercanzia. Il quadro occupa quasi tutta la parete, misura tre metri per tre.

Continuammo la visita entrando nel museo. Questi locali erano stati prima celle che avevano ospitato donne accusate di stregonerie, come testimoniano i reperti delle celle, esposti nelle bacheche, e i graffiti sulle pareti che rappresentano immagini sacre molto belle, ma anche scritte con invocazioni delle prigioniere. 

Guardando quei graffiti mi prese una forte emozione. Mi immaginai al loro posto chiusi nella cella senza luce e senza nessuna speranza di uscire da quella prigionia. Pensai ad alcune rime della Divina Commedia di Dante Alighieri “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente…Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.  

Tutti quei disegni sulle pareti erano veramente opere d’arte. C’erano immagini sacre e scritti che invocavano la liberazione. Grande la sofferenza di queste povere creature rinchiuse perché accusate di stregoneria o di adulterio e destinate ad essere giustiziate. Quanta barbarie fu compiuta in quel periodo buio!

Chiesi dei sotterranei ma non era prevista la visita per quell’ora. 

Sapevo che vi venivano reclusi e torturati i sospettati dei reati più gravi, tra cui le streghe, i bestemmiatori e gli eretici.

Uscimmo fuori per entrare nelle carceri, che erano in un edificio a fianco del palazzo. Fu costruito in seguito all’esplosione del carcere del Castello a mare dove morirono 200 reclusi tra cui anche Antonio Veneziano, l’illustre poeta monrealese.

Visitammo le celle con centinaia di graffiti fatti dai detenuti.

Messaggi e graffiti rivivono grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori dell’Ufficio tecnico dell’Università di Palermo guidati dall’ingegnere Antonino Catalano.

I graffiti sono venuti fuori, sotto l’intonaco, nel corso dei lavori di restauro dell’intero complesso, finanziati con fondi europei.

I graffiti dei detenuti, nonché le poesie di quel periodo, ci fanno quasi toccare con le mani la crudeltà di quella vita in carcere.

Mi ha toccato veramente il cuore quella attribuita dal Pitré a Simone Rao che recita: 

Cui trasi in chista orrenda sepultura

idi rignari la (gran) crudeltà

di unni sta scrittu alli segreti mura: 

nisciti di spiranza vui chi ‘ntrati 

chà non si sapi si agghiorna o si scura

Suli si senti ca si chianci e pati 

pirchì non si sa mai si veni l’hura 

di la desiderata libertati.

Finalmente arrivammo nella cella in cui fu rinchiuso Baronio Manfredi. 

Osservai con tanta attenzione quei graffiti che rappresentavano tanti personaggi sacri, tra cui pure Santo Vito su un piedistallo e poi altri piedistalli sormontati da una croce e personaggi religiosi. Sulla stessa parete ammirai il disegno di un sole e all’interno un calice con l’ostia, un cavallo con un cavaliere in groppa, una barca con pescatore, figure di donne, alberi e brani scritti in dialetto. Quella che più mi colpì fu l’immagine di un sacerdote con una croce in mano con accanto delle frasi scritte e sotto come firma la lettera B. Ecco, avevo trovato la testimonianza della prigionia di Baronio Manfredi come aveva scritto il Pitrè <<Il Pitrè in alcune pagine assai suggestive credette di potere identificare col “B” un prigioniero nelle carceri palermitane dei “Santo Uffizio”, il quale cosparse le pareti della sua cella di scritte, preghiere, versi, disegni, firmandoli con la iniziale “B”>> (fonte Treccani).

 

 

Chissà come si sentiva il nostro Baronio rinchiuso in quella cella, lui che era uno spirito libero e anticonformista per quei tempi. Quanti disegni e quanti versi struggenti su quelle pareti. 

Quanta tristezza al pensiero della sofferenza di tutti quei poveri “cristi” segregati nel buio di quelle celle! Baronio, come tanti altri reclusi innocenti, fu un martire.

Perché la chiamavano “Santa”? Mi fa venire i brividi il solo pensarci. Santo è solo Gesù Cristo che diede la vita per il perdono dei nostri peccati, mentre questa “Santa Inquisizione” mandava al rogo tutti coloro che non accettavano il dettame della Chiesa, i cosiddetti eretici, (e non solo)  e chi scriveva libri da dove si evinceva qualcosa che la Chiesa non accettava. 

Certo stiamo parlando di un periodo nero. Ancora oggi il Papa chiede perdono per questo passato buio vissuto nel basso medioevo e in buona parte dell’età moderna, cioè sino al XVIII secolo. 

Il tribunale, nel 1782, per intervento del Vicerè Caracciolo, fu definitivamente chiuso. Lui, contrario a queste pratiche inquisitorie, diede ordine di chiuderlo, di liberare  tutti i carcerati e di bruciare tutti gli atti del tribunale. 

In seguito, il Palazzo fu sede di rifugio dei poveri di San Dionisio, della Regia impresa del lotto, dal 1800 fu anche sede degli uffici giudiziari e al piano terra degli uffici della dogana.

Oggi è sede del Rettorato dell’Università di Palermo.

Il museo è aperto ogni giorno dalle 10.00 alle 18.00.

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