Musicalmente parlando, ho trascorso un’adolescenza, una giovinezza e una maturità da rockettara convinta. La musica melodica italiana, quella, per intenderci, di cuore che fa rima con amore, sta alla mia persona esattamente come il caciocavallo ragusano sta agli spaghetti con i ricci di mare.
Detto questo dovrei, di norma, aggiungere, come inevitabile conseguenza, che non seguo Sanremo, in quanto rappresentazione evidente di ciò che non rientra nelle mie corde. E invece no, perché io Sanremo, magari sonnecchiando qua e là o a fasi decisamente altalenanti, l’ho sempre seguito. Numero uno: per gli ospiti internazionali di grande rilievo che, nei decenni, si sono avvicendati su quel palco: da Peter Gabriel a David Bowie, da Bruce Springsteen a Sting e via ricordando.
Numero due: per la presenza, più o meno in tutte le edizioni, di almeno un artista autoctono interessante.
Numero tre: per mera curiosità.
La musica, si sa, è uno tra i canali prioritari dell’arte, il collante di una moltitudine di rappresentazioni artistiche. Un canale espressivo che anche da solo sa già creare atmosfera e, quindi, spettacolo. Essa costituisce una potente calamita artistico-emozionale, di cui l’umanità non può fare a meno, ed è per questo motivo che essa diventa l’espressione prioritaria di ogni popolo, in tutti i continenti e in ogni latitudine e longitudine.
I grandi spettacoli musicali, in tutto il mondo, dunque, catalizzano l’attenzione di milioni di persone. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli Academy Awards, dove si esibisce il fior fiore della musica pop mondiale, tengono incollati allo schermo un numero impressionante di persone e non solo di americani.
In Italia l’evento fondamentale ove celebrare la musica (veicolando anche importanti input di costume contemporaneo, tipicamente italiano e non) è proprio Sanremo. Una kermesse che non è solo di musica, ma anche di spettacolo e di intrattenimento in senso lato.
Performance musicali si alternano, infatti, a intramezzi artistico-sociali anche complessi, estremamente delicati, di denuncia, che molti reputano fuorvianti in quanto decontestualizzati. Secondo la mia opinabile opinione, essi risultano, al contrario, molto efficaci poiché fruibili da un numero elevatissimo di persone, dato lo share altissimo che tale evento determina, anno dopo anno. Si pensi, ad esempio, al monologo di Pierfrancesco Favino di un paio di anni fa e a quello di Rula Jebreal di quest’ultimo festival. Messaggi potenti espressi con l’ausilio di una comunicazione che, incontrando l’arte, sa come fare arrivare alla gente, nel modo più empatico possibile, ciò che nella normalità è difficile cogliere.
Un altro must immancabile, che conferisce colore a Sanremo, come i capellini eccentrici di Queen Elizabeth, sono le onnipresenti polemiche su questo o su quel personaggio, gli scandali e gli scandaletti, ma soprattutto gli outfit di cantanti e conduttori, passati a setaccio dalla pungente solerzia di un’orda di critici, oltre che dal puntuale binocolo popolare.
In questa carrellata, lunga ormai settant’anni, Sanremo, in fatto di moda, outfit, ostentazioni e provocazioni varie, non si è fatto mai mancare nulla. Dalla raffinata eleganza degli abiti Armani indossati dall’indimenticabile Mia Martini, al pancione posticcio di sua sorella Loredana Bertè. Dall’outfit geisha di Patty Pravo alla versione Rockets di Elio e le Storie Tese. Dall’allure punkeggiante della prima Anna Oxa, ai tatuaggi tuareg delicatamente cesellati sul cranio pulito e perfetto di una sofferente ma superba Giuni Russo. Un numero enorme di personaggi che sono stati incensati o profondamente criticati per il loro impatto estetico sul palco dell’Ariston e che per tale motivo sono riusciti a farsi ricordare, nel bene e nel male, durante il corso degli anni, a volte anche al di là dello spessore artistico delle loro performance canore.
Quest’anno la lente d’ingrandimento ha avvistato l’inusuale impatto scenico di Achille Lauro, definito da alcuni repellente, da altri di pessimo gusto e da altri ancora carismatico, geniale e innovativo.
Il ragazzo iper-tatuato e ossigenato si presenta indossando un elegante (e costosissimo) manto di velluto nero, di Gucci, molto glamour, con fitti e arzigogolati ricami d’oro, di foggia solenne, evocativa di una dimensione clericale, che ricorda il manto di antiche Madonne. Un indumento vistoso ed elegante al contempo, che, a un certo punto, cadendo giù, scopre una tutina aderentissima, color carne glitterata, che lascia i tatuaggi di Achille a vista e poco altro all’immaginazione.
L’impatto estetico di un artista va sempre letto con attenzione. Se si utilizzano le lenti deformate del moralismo bigotto, la lettura risulta alquanto alterata e carica di pregiudizio. A ben riflettere tutti noi siamo anche ciò che appariamo o che vogliamo apparire. Oltre il palcoscenico e quindi oltre il valore estetico e artistico di ciò che si indossa tra il sipario e il pubblico, anche nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità reale, il nostro modo esteriore di proporci, parla di noi al mondo che ci circonda. Esso ci racconta, a volte, più e meglio di quanto non sappiano fare le parole. Per questo ritengo sia abbastanza surreale linciare o tentare di censurare la performance di un artista sulla base di un fantomatico e ipotetico cattivo gusto. D’altronde anche la linea di demarcazione tra buon gusto e cattivo gusto è spesso piuttosto indefinita. Tale linea sottile viene, infatti, oltrepassata, a favore dell’uno o dell’altro versante, sulla base dello sguardo, più o meno carico di preconcetti, di chi osserva un’opera, un evento artistico o una semplice situazione quotidiana.
Concludo con una frase di Rino Gaetano, gettata lì alla fine dell’esibizione di “Gianna” datata 1978: – “Ma il Festival resta solo una passerella…”
Rino, ai tempi, fece il suo ingresso sul palco dell’Ariston con una tuba nera in testa, un elegante frac attillato, papillon bianco, maglietta a righe bianche e rosse e scarpe da ginnastica. Sul bavero del frac portava appuntata una gran quantità di medagliette, che in parte consegnò al direttore d’orchestra, in parte lanciò al pubblico nel corso dell’esibizione.
A completare l’outfit, un ukulele oltre alle immancabili critiche dei soliti benpensanti col sopracciglio alzato e il ditino puntato. E la storia si ripete…