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“Borsellino: “Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto”

24 dicembre 2017 – Nel settimo capitolo del suo libro, “1992 sulle strade di Falcone e Borsellino”, Alex Corlazzoli racconta di un luogo simbolo dei due magistrati, la biblioteca comunale di Casa Professa, dell’incontro che vi si tenne dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e delle parole pronunciate da Paolo Borsellino sul rapporto tra il giudice ucciso e la magistratura: 

Casa Professa 

“Vieni vieni, capo. Gira, gira. Stop. Apposto così”. 

Fino a qualche anno fa davanti alla chiesa barocca di Casa Professa c’era zio Michè a fare il posteggiatore abusivo. 

Ogni volta che mettevo l’auto “da lui” mi riconosceva: “Dottò, ancora qui a Palemmo?” 

L’appellativo che marcava la distanza tra me e il parcheggiatore semianalfabeta non era un riconoscimento al mio “status” ma una sorta di servigio in attesa della moneta da 500 lire. 

Negli ultimi tempi, al posto di quel sessantenne con la coppola in testa e con uno stretto maglioncino a V che non copriva il ventre, c’è un giovane nero, con gli occhi scuri, profondi e dei folti ricci in testa. 

Mamadou, un ventenne arrivato da Sokone, una città che si trova nella parte ovest del Senegal, non chiede nulla. Lascia che sia tu ad allungare la mano verso la sua con l’euro tra le dita. Arrivato a Palermo nel 2001, da allora vive tra i vicoli stretti e le bancarelle di pesce, olive, sfincione, arance, limoni, melloni del mercato di Ballarò. 

Lui abita in un “basso” di via del Protonotaro, una stretta traversa di corso Vittorio Emanuele che apre le “porte” di questo luogo unico al mondo: un incanto di colori, odori, profumi, voci che fanno di questo posto una mappa a cielo aperto. 

I “padroni” restano i palermitani ru Ballarò ma sotto lo stesso tetto hanno trovato casa uomini e donne arrivati dallo Sri Lanka, dalla Romania, dall’India, dal Bangladesh. 

Se guardi il quartiere dall’alto con il satellite su Google non puoi capire: vedi solo il rosso, l’azzurro, l’arancio, il verde dei teli delle bancarelle che da via Nunzio Nasi vanno fino a piazza del Carmine. Bisogna mettere piedi, naso, occhi, mani tra quelle strade per capire quel villaggio globale che fa di Ballarò un mappamondo. 

Mamadou non lo sa, ma nel misterioso nome del mercato sta il motivo dell’interculturalità di queste vie e piazze: Balhara era il paese vicino a Monreale da dove provenivano i primi commercianti arabi che frequentavano il mercato di Palermo. 

Mamadou non sa nemmeno perché stasera davanti alla biblioteca comunale ci sono tutte queste macchine blindate parcheggiate di fronte al cancello che protegge la chiesa barocca del Gesù che ha conosciuto incendi, infiltrazioni, la cacciata dei suoi custodi, i gesuiti e persino un bombardamento che il 9 maggio 1943 ha distrutto la cupola, poi ricostruita. 

“Capo, che succede stasera?” 

Guardo il giovane posteggiatore: avrà venti, ventun anni. Quando Paolo Borsellino il 25 giugno del 1992 pronunciò il suo ultimo discorso in pubblico, lui non era ancora nato, come del resto la maggior parte dei ragazzi che oggi frequentano una scuola superiore e i primi anni di università. 

Quell’estate la mia generazione cantava Hanno ucciso l’uomo ragno e la radio trasmetteva Mare, mare di Luca Carboni. 

Da un mese esatto, all’indomani della strage di Capaci, era stato eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ma noi ragazzi neanche avevamo fatto in tempo a vedere la sua foto appesa in aula perché era già tempo di mettere la cartella al chiodo. 

Non ci eravamo accorti ma in quei 57 giorni che separavano il 23 maggio dal 19 luglio, in quell’estate iniziata in ritardo a causa delle temperature, stavano cambiando anche le nostre vite. 

A diciassette, diciott’anni la maggior parte di noi guardava al debutto della Volkswagen Golf e all’Opel Astra che quell’anno guadagnavano il titolo di auto dell’anno. I figli di papà giravano con la Golf, io potevo solo aspirare a una Fiat Panda usata. 

Noi al Nord eravamo pronti a un’altra estate a Riccione, a Rimini oppure in Liguria con mamma e papà, ma prima saremmo andati per l’ennesima volta al parco dei divertimenti di “Gardaland”. 

Al Sud, in Sicilia, i nostri compagni non potevano permettersi il lusso di non pensare a quello che era accaduto sotto i loro occhi. A un mese dalla strage di Capaci si trovarono a partecipare a una fiaccolata che si snodava per le vie di Palermo, un cordone umano di oltre diecimila persone. Una manifestazione unica, con la presenza di Paolo Borsellino in prima fila con la sua fiaccola in mano e gli uomini della scorta attorno. 

Per il magistrato quelle settimane sono segnate dalla tensione e dalla preoccupazione. 

Una mattina dei primi giorni del mese la madre del magistrato si accorge di strani movimenti nel giardino adiacente al palazzo. Avverte Paolo con una telefonata e all’indomani una squadra di agenti della polizia è sul posto e scopre alcuni cunicoli nascosti sotto il manto stradale. Il magistrato sa che ora toccherà a lui. Sa che in città è già arrivato il tritolo. 

A Roma, intanto, con un decreto tardivo si inasprisce il carcere per i reati di mafia. 

Il 25 giugno per Borsellino la giornata inizia con la notizia che in carcere altro non si fa che darlo per morto. Il pomeriggio, secondo la sua agenda grigia, lo passa in Procura. 

Due ufficiali dei carabinieri, Mario Mori e Giuseppe De Donno, quest’ultimo accusato di aver preso contatti con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per avviare la trattativa Stato-mafia, dicono invece di averlo incontrato alla caserma Carini ma di questo appuntamento sulle pagine dell’agenda grigia dove Borsellino segnava ogni spostamento non c’è traccia. 

Ciò che è certo è che quella sera, quando arriva a casa, è stanco. È già ora di cena. Prima di sedersi a tavola si toglie la giacca e la camicia; indossa un paio di pantaloni corti e una maglietta. 

Appena si siede ecco lo squillo del telefono. Dall’altra parte della cornetta c’è Alfredo Galasso, avvocato, professore. Lo chiama per ricordargli un impegno preso alla biblioteca comunale. Borsellino non ha proprio voglia di rimettere giacca e cravatta. Prova a resistere all’invito a partecipare al dibattito organizzato dalla rivista “Micromega”, ma alla fine si scusa con la famiglia, si alza da tavola, si riveste ed esce. 

Quando arriva alla biblioteca è una sera proprio come questa. 

In via Casa Professa non ci sono come oggi le parrucchiere africane che tengono aperto fino a tardi le botteghe e non c’è nemmeno il circolo Arci “Porco Rosso” all’angolo della Salita Raffadali. 

Paolo probabilmente dai vetri oscurati della sua auto intravede il fumo che si alza dalle griglie roventi che lo stigghiularu maneggia con maestria ai bordi dei vicoli di una città che brulica ancora a quell’ora. Forse avrà buttato un occhio anche lui, come fa ogni palermitano, alle forme sontuose della chiesa barocca del Gesù per poi avanzare con la sua sigaretta in bocca verso quel chiostro colonnato diventato atrio della biblioteca comunale. Una ventina di passi, tre gradini, ancora cinque-sei passi prima di ritrovarsi tra centinaia di persone. 

Il dibattito è già iniziato. Al tavolo sono seduti il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa, sociologo e fondatore con Orlando del movimento politico La Rete, nato per dare una svolta morale al Paese, per dare voce a chi da anni combatte contro la mafia. 

Attorno poliziotti, carabinieri, uomini delle scorte. E tanta tanta gente arrivata per stringersi attorno al magistrato, per abbracciarlo. Non c’è un solo posto a sedere libero. Le persone sono sedute a terra in ogni angolo. 

È un applauso che dura lunghissimi minuti ad accoglierlo: non smetterebbero mai di battere le mani a quest’uomo. 

Quando inizia a parlare cala il silenzio assoluto. 

Paolo indossa una camicia bianca, un completo grigio con una cravatta blu. Sotto gli occhi non ha alcun foglio. Non sta fermo con le mani, gira e rigira tra le dita l’accendino e il pacchetto di sigarette. Non guarda quasi mai gli altri relatori ma ha lo sguardo fisso rivolto al pubblico, quasi volesse confidare un’ultima verità: 

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti, ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. 

In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. 

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore”, dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. 

Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. 

Ma nel gennaio del 1988, quando il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli, c’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. 

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. 

Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro “La mafia d’Agrigento”, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. 

L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. 

Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. 

Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. 

Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pen- sava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. 

Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. 

Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. 

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura. 

Durante il suo intervento Borsellino viene interrotto due volte da lunghi appalusi e dopo circa dieci minuti accende una sigaretta. Agnese segue da casa il discorso del marito su un’emittente locale. Resta sconvolta, è convinta che quelle parole gli si ritorceranno contro. 

Da quel 25 giugno Casa Professa è diventata un “luogo sacro” per i palermitani convinti, come fu Paolo quella sera, che la mafia (e non solo lei) avesse paura dei poteri di Falcone se fosse diventato procuratore nazionale antimafia, una sorta di regista di tutte le indagini di mafia. Un ruolo che dopo la morte di Falcone viene proposto anche a Borsellino, il quale rifiuta convinto di continuare il suo lavoro a Palermo. 

Il magistrato più a rischio è assediato: il Movimento sociale italiano, un partito di Destra, gli propone persino di concorrere all’elezione a presidente della Repubblica, ma lui non ne vuole sapere. Tutti lo cercano; molti, ora che è diventato il simbolo più esposto della lotta alla mafia, lo vorrebbero con sé ma lui ha in testa solo un obiettivo: contribuire al raggiungimento della verità sulla strage di Capaci. Sa che ha poco tempo. 

Chi è seduto in quell’atrio di Casa Professa ad ascoltarlo intuisce questa sua preoccupazione dall’inclinazione della voce, dalle mani che si muovono in continuazione, dalle sue parole. 

Da allora ogni anno l’Arci organizza per l’anniversario della strage un incontro proprio nella biblioteca: sembra di rivederlo seduto al centro di quel tavolo, difeso dallo sguardo di Orlando, di dalla Chiesa e di Galasso ma anche della sua gente, della sua Palermo, della città per la quale si era consacrato. 

Una città che ha cambiato volto ma che è stata persino capace di arricchirsi di nuove contraddizioni: piazza Santa Chiara, il cuore di Ballarò, dove fino a qualche decennio fa incontravi i picciriddi giocare a pallone all’oratorio gestito da un prete che si muoveva in Vespa e occupava la cattedrale in difesa dei senzatetto, oggi è una colonia africana. 

E tra via dei Biscottari – chiamata così per i forni a legna che la costellavano – e via della Zuppetta, gli alimentari che vendono ricotta salata e sarde a beccafico si mescolano a ne- gozi gestiti da uomini e donne che sul loro banco hanno tube- ri, manioca e radici bollite. 

All’angolo di via Porta di Castro non c’è più la bottega con la scritta “Latte Polenghi” arrivata nel capoluogo siciliano dalla lontana Lodi, ma la panineria “da Saruzzu” anticipa un tripudio di profumi che si mescolano a voci, accenti orientali e africani che non riescono mai a prevalere sulle abbanniate dei venditori. 

È la Palermo di Mamadou, che legge sul muro di fronte alla “sua piazza” la scritta “Si vucìa, si abbannìa, Ballarò è magia” ma non riesce a capirne bene il significato. È la città che il posteggiatore senegalese ha imparato a conoscere e che questa sera prova a capire buttando un’occhiata in quell’atrio della biblioteca che ogni giorno guarda da fuori. 

C’è tanta gente. C’è un silenzio che si fa preghiera. C’è qualcuno che prende la parola commosso. Ci sono giovani e anziani. Seduti. Composti. 

Mamadou non mi chiede nulla. Osserva incuriosito. Si avvicina pian piano, senza farsi notare. Sbircia in quella storia che capisce non essere apparentemente sua. Chissà cosa sta- rà pensando ascoltando quelle voci, guardando quell’austero chiostro. Chissà che immagina guardando quel colonnato dove mi sembra ogni volta di vedere ancora i gesuiti bisbigliare “Benedictus” e “Magnificat” camminando su e giù sotto il porticato. 

Quando Mamadou si avvicina al banchetto dei libri vedo le sue mani allungarsi proprio su un testo con in copertina una fotografia di Paolo Borsellino, ritratto con l’immancabile sigaretta tra le labbra. Lo sfoglia pagina per pagina. Intuisco il suo interesse. Forse stasera quella storia è diventata anche sua e forse un giorno lo sarà dei suoi figli. 

Ne è passato di tempo da quel 25 giugno ma quel chiostro continua a parlare ai palermitani. E anche a Mamadou.

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