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Nella chiesa di San Domenico vennero celebrati i funerali del giudice Falcone

Nel quarto capitolo del suo libro “1992 sulle strade di Falcone e Borsellino”, Alex Corlazzoli entra nella chiesa barocca di San Domenico che ha ospitato gli uomini che hanno lasciato una traccia nella storia della Sicilia. “Qui sono stati anche celebrati i funerali del giudice Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta che sono stati ammazzati”.

Chiesa di San Domenico

“Lui è lo scrittore Giuseppe Pitrè, uno studioso delle nostre tradizioni popolari. Questo è Giovanni Crispi, un politico che studierai presto a scuola. Guarda, c’è anche la tomba monumentale di un ufficiale che ha partecipato alla spedizione dei Mille: è Luigi Tukory”. 

“E questa con scritto 2015, papà?” 

“È Giovanni Falcone, il magistrato ammazzato dalla mafia il 23 maggio 1992. L’hanno sepolto anche lui qui perché questa chiesa è il Pantheon degli uomini illustri della nostra terra”. 

È da qualche minuto che sto osservando e seguendo questa coppia. Lui, alto, bruno, con indosso un paio di jeans e una giacca rossa, avrà una quarantina d’anni. Lei, lunghe trecce bionde e una gonna svolazzante a pois blu e bianca, ha decisamente nove-dieci anni. 

Da quando sono entrati nella chiesa barocca di San Domenico, affacciata sull’omonima piazza dove svetta una colonna marmorea con in cima la statua dell’Immacolata, non hanno smesso un attimo di passare in rassegna le tombe monumentali, i busti e le stele commemorative che i padri domenicani hanno voluto nel loro tempio per ricordare poeti, artisti, letterati. 

Come a “Santa Croce” a Firenze sono sepolti tra gli altri Ugo Foscolo e Galileo Galilei, anche a Palermo al mecenate Agostino Gallo venne l’idea di celebrare gli uomini che hanno lasciato una traccia nella storia della Sicilia. 

“Qui sono stati anche celebrati i funerali del giudice Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta che sono stati ammazzati. Io c’ero”, dice il giovane papà alla figlia stringendole la mano. 

Per un attimo mi soffermo accanto a loro fingendo di cercare qualcosa nel mio zaino: il cellulare, la macchina fotografica, una penna… Ho la sensazione che quest’uomo si sia emozionato. E non mi sbaglio. Sui suoi occhi sono calati un paio d’occhiali da sole per non mostrare le lacrime alla figlia. Ma con i bambini non si può barare. Impossibile. 

“Perché piangi papà?”
Ecco la domanda. Spontanea, sincera.
“Ogni volta che entro in questa chiesa mi scendono le lacrime. È come ritornare a quel lunedì 25 maggio del 1992. Non mi emoziona vedere questo monumento, questa tomba dedicata a Falcone che è stato portato qui solo nel 2015, ma pensare a tutta la gente che era seduta tra questi banchi, a quelli che erano ammassati in piedi, dentro e fuori la chiesa. E poi i feretri messi a terra lì davanti all’altare: quelli degli agenti di scorta con il tricolore della nostra bandiera italiana e quello di Falcone e la moglie con la toga rossa appoggiata sopra”. 

Ora la bambina volge gli occhi una volta a destra verso il monumento di Falcone e una volta verso lo sguardo del padre, quasi volesse immaginare qualcosa in più. Poi spiazza il papà con quella domanda che non ti aspetteresti: “Ma tu perché sei venuto al funerale?” 

“Avevo diciott’anni. Era l’anno dell’esame di maturità. A casa avevo pile di libri di filosofia da studiare e versioni di Cicerone da tradurre, ma quello che era successo alla mia città era una ferita che non poteva lasciarmi indifferente. Ed erano in tanti a pensarla così. La stessa idea era venuta ai miei compagni di classe: dovevamo esserci. Non avrei mai pensato però di incontrare una folla oceanica come quella che ho visto quel giorno. C’erano tantissimi studenti come noi, anziani, donne, impiegati, operai. C’erano pure i nostri professori. Anche se pioveva, tutte le strade attorno erano invase. In via Roma, davanti alla Chiesa, non si riusciva quasi ad arrivare. Ricordo i tanti gonfaloni dei Comuni, i fiori ma soprattutto le urla delle persone”. 

Per noi che c’eravamo quel grido “Vergogna, vergogna” riecheggia nella mente come se fosse ieri. Non mille proteste ma una sola voce si alzava da quella piazza. 

Impossibile scordare la cronaca di Sandro Ruotolo che da un balcone su via Roma mostra la folla, indicandola con la mano sinistra, e commenta: “Ci sono gli studenti, i colleghi di Antonio, Vito, Rocco. Buffoni, buffoni, gridano. A stento riescono a trattenere la gente”. 

Infuriati, arrabbiati. Anzi, la parola giusta da usare è indignati. 

Sono da riascoltare le interviste rilasciate quel giorno in piazza: “Tutti lo sanno chi sono gli assassini a cominciare dal potere politico”; “I politici sono gli assassini”; “È da anni che dico a me stesso che vorrei per la mia carriera andarmene da qui ma ora io non la lascio questa terra”. 

E loro, i politici, gli uomini dello Stato, anche quella volta sfidano la folla. 

Se li ricorda bene questo papà: “In chiesa c’erano le più alte cariche dello Stato: il presidente del Senato Giovanni Spadolini; il ministro della Giustizia Claudio Martelli; quello dell’Interno Vincenzo Scotti. E poi volti che a te non dicono nulla ma che noi abbiamo visto per decenni: Gianfranco Fini, Marco Pannella, Armando Cossutta; Sergio Mattarella, che è diventato presidente della Repubblica. Nemmeno loro erano riusciti a entrare dall’ingresso principale della chiesa; la tensione era alta. La gente, appena scorgeva un politico, fischiava, urlava. L’unico a restare fuori in mezzo alla folla senza essere insultato fu il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. I cittadini lo riconoscevano, lo stimavano, lo sentivano come uno di loro”. 

Dentro la chiesa, intanto, a celebrare la funzione religiosa c’era il cardinale Salvatore Pappalardo. 

Il cerimoniale saltò: i picchetti davanti alle bare diventarono un semicerchio; i colleghi di Giovanni Falcone in toga si strinsero attorno ai feretri. C’era anche Paolo Borsellino che si era preso cura della mamma di Francesca Morvillo, passando a prenderla a casa per andare con lei a “San Domenico”. 

Tra loro era arrivato da Firenze anche il “padre”, il maestro di Falcone e Borsellino: Antonino Caponnetto, il fondatore del pool antimafia. 

L’omelia venne interrotta più volte dagli applausi ma il più lungo fu per una donna, una poliziotta in divisa che salì sull’altare e rivolta ai suoi colleghi morti trovò la forza per pronunciare solo queste parole: “Grazie per l’esempio, ce la metteremo tutta”. 

I parenti di questi ragazzi uccisi dalla mafia si accasciavano vicino alle bare. 

“In chiesa si sentiva solo il pianto di queste persone”, spiega il giovane papà alla bambina mentre si spostano verso il centro del tempio. La piccola sembra capire. Lei è solo una figlia di queste stragi. Può solo, come ogni altro ragazzo nato dopo il 1992, ascoltare, fare in modo che quelle cinque righe dedicate alle stragi stampate sul libro di storia nel capitolo dedicato al Novecento non restino lettera morta. 

“Voi ragazzi non potete leggere i nomi di questi giudici, quello di Aldo Moro, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, come se fossero qualcuno che non vi riguarda. Quella non è storia ma fa parte della nostra vita. Un giorno capirai che quello che è successo non è stato inutile ma ha cambiato l’Italia, il tuo Paese”. 

Le parole di questo papà sono quelle che vorrei sentire pronunciare nelle aule di ogni scuola. 

I due, mentre parlano, si avvicinano all’ambone dell’altare: “Lo vedi quel microfono? Lì, durante il funerale, avvenne una cosa straordinaria: la moglie di uno degli agenti di scorta, Rosaria Schifani, perdonò i mafiosi”. 

Per la bambina è un gesto sconvolgente: “Perdonato? Ma come ha fatto? E loro hanno chiesto scusa?” 

La risposta non arriva direttamente da papà ma dalle parole della vedova. Da qualche metro di distanza intuisco che l’uomo sta cercando qualcosa nella tasca interna della giacca. Poi vedo che estrae un foglio: “Quando vengo qui porto sempre con me le parole che quella donna disse in chiesa quel giorno. Me le sono stampate tanti anni fa e le conservo: è come una preghiera per me. Voglio leggerle con te, posso?” La domanda è retorica. A rispondere è lo sguardo della piccola: 

Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano. Loro non cambiano, loro non cambiano… Di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete. Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo che avete reso questa città sangue, città di sangue… Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue – troppo sangue – di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente. 

Nessuno ha mai scordato quel “Io vi perdono”, le interruzioni in lacrime, i singhiozzi di Rosaria, gli applausi, gli occhi dei colleghi di Giovanni Falcone mentre la donna pronunciava quell’appello. E nemmeno le urla della folla fuori dalla chiesa: “Fuori la mafia dallo Stato! Fuori la mafia dallo Stato!”, ripetevano le persone in attesa che finissero i funerali. C’era persino chi scandiva qualche slogan imitando il tifo da stadio: “Chi non salta è mafioso”. 

Un’ora e mezza d’attesa con l’ombrello in mano, ma nessuno se ne andò. 

Quando uscirono le bare, Palermo c’era. Ieri come oggi perché non è vero che i palermitani hanno dimenticato, che nei giorni degli anniversari non si vede più la folla che era presente quel 25 maggio. Chi vive nel ventre di questa città si è caricato sulle spalle ogni giorno le urla delle persone, il pianto di Rosaria Costa. Molti hanno scelto di non strappare le radici dalla propria disgraziata terra per non tradire Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Senza per forza scendere di nuovo in piazza, vivono come se quel funerale non fosse mai terminato. Non è una memoria flebile, è un ricordo costante, perenne che si intuisce ogni volta che pronunci quelle quattro cifre, 1992, o fai il nome dei due magistrati. 

E se oggi, anche lontano dalla Sicilia, in qualche scuola o in qualche municipio c’è appesa la foto di Falcone e Borsellino scattata da Tony Gentile, è solo perché i palermitani hanno avuto la caparbietà di ricordare e la generosità di condividere con chi abitava a 1500 chilometri di distanza la sofferenza provata. Lo hanno fatto raccontandoci. Riaprendo ogni volta quella ferita. 

I palermitani allora non riuscirono a volgere la testa nemmeno al cielo e alla statua dell’Immacolata sulla colonna. I loro occhi erano tutti per quelle bare che uscivano una alla volta dall’ingresso principale tra il battimano di migliaia di persone. 

Lo descrive bene Antonino Caponnetto nel suo I miei giorni a Palermo, pubblicato da Garzanti quattro mesi dopo la strage di Capaci. Conservo quel libro come una reliquia, con la dedica di Caponnetto. Non amo farmi autografare saggi o romanzi ma di fronte al volto anziano, affaticato ma sorridente del magistrato fiorentino, non ho esitato a chiedergli una dedica quando ancora non sapevo che avrei stretto un’amicizia filiale con lui. 

Caponnetto, che sul suo biglietto da visita aveva fatto stampare “Magistrato a riposo”, non appena saputa la notizia di Falcone direttamente da Borsellino, scese a Palermo dove trovò all’aeroporto la macchina di Paolo con il suo autista e la scorta. Per arrivare in città fu costretto a passare non dall’autostrada interrotta a causa del cratere creato dall’esplosione ma dal paese di Capaci, dove su ogni pianta avevano appeso dei cartelli: “Giovanni sei vivo”; “Un pezzo di Sicilia se n’è andato con te”. 

Immediatamente si precipitò a Palazzo di Giustizia, dove era stata allestita la camera ardente e il lunedì era presente alla chiesa di “San Domenico”: Ricordo la conclusione della cerimonia funebre. Fu abbastanza confusa e tumultuosa, tanto che il cardinale Pappalardo dovette rinunciare alla benedizione delle bare. Attorno a ogni bara c’era un assembramento di familiari: pianti, grida, ira… Credo quindi che questo rito pietoso e indispensabile si sia limitato ad un cenno di benedizione a tutte le salme. C’erano numerose autorità: Amato, Martelli, Spadolini, Parisi. Dovettero uscire dalla sacrestia. Non è che io stessi molto dietro a queste cose, ma notai questa confusione all’entrata e uscita. Ma ero troppo assorto nei miei pensieri per seguire questi episodi. Mi preoccupai di prendere io stesso la toga rossa e il tocco sulla bara di Giovanni, quando la alzarono per portarla fuori. Da quel momento ho seguito il feretro. Sono stato io stesso a riporre la toga e il tocco sulla bara, una volta introdotta nel carro funebre; dopo di che ci siamo avviati, molto lentamente, attraversando due ali di folla impressionanti, sempre sotto una pioggia battente, accompagnando Giovanni per parecchie centinaia di metri. Non saprei ricostruire il percorso, anche perché, fra le lacrime e la pioggia che cadeva, l’unica cosa che riuscivo a scorgere erano le due muraglie umane attraverso cui passavamo, e dalle quali si levavano grida di amore e di disperazione”. 

Il ricordo di Caponnetto è struggente, puntuale, così preciso da farci rivivere quei lunghissimi minuti della storia entrati a far parte della narrazione della città di Palermo: 

“Mi giungevano – continua il padre del pool – anche invocazioni rivolte a me. Sono state tante, tante le mani che mi venivano tese e che ho stretto. Eravamo in cinque a seguire in toga la bara di Giovanni: io, Guarnotta, Natoli e due giovani. Noi cinque tenevamo le mani appoggiate sul carro funebre, quasi a non volerci distaccare dall’amico. E anche a simboleggiare – sia pure casualmente – la continuità di impegno tra il fondatore del pool, ormai vecchio e in pensione, e i magistrati più giovani, animati da eguale spirito di sacrificio”. 

Il racconto del giudice ci accompagna lungo la strada che hanno fatto quelle bare prima di lasciare il centro città: 

“A un certo punto il corteo si fermò perché, mentre le salme di Francesca e Giovanni dovevano essere avviate verso un cimitero, le tre salme degli agenti dovevano dirigersi verso un altro cimitero. A questo punto vidi la folla mettersi in mezzo alla strada, accanto al carro, e stendersi per terra. Stava ancora piovendo a dirotto, e chiedevano che il corteo proseguisse ancora per qualche centinaio di metri, perché in via Roma c’era ancora una folla immensa che attendeva il suo passaggio. Fu allora che compresi una cosa che non avevo mai intuito: quanto Palermo amasse Falcone”. 

E lo ama ancora. Non c’è palermitano che passando davanti alla basilica di San Domenico non ricordi quei funerali, quelle giornate che hanno segnato la storia della sua isola e del Paese. 

Un luogo “sacro” per il papà di quella bambina che ora sul portone della chiesa barocca osserva la colonna marmorea con in cima l’Immacolata, ricordando alla figlia che quel monumento sfidò la sorte: “A due mesi dal terribile terremoto del 1726 che aveva causato 250 morti, venne innalzata senza alcuna paura per volere del popolo”. 

La piccola guarda verso il cielo: “Quanto è alta papà?” 

“Più di venticinque metri. Pensa che il grande monolito di marmo è stato ricavato proprio dalla montagna di Santa Rosalia”. 

Da allora quella Madonna osserva il traffico su via Roma, i fedeli che vanno alla messa nel complesso dei domenicani, i turisti che si fermano al bar Lucchese e i mercanti che attraverso la discesa dei Maccheronai entrano nel meraviglioso mondo dello storico mercato della Vucciria con i loro carretti di pesce, frutta e verdura. 

In questi trecento anni hanno cambiato volto solo le due statue collocate nel basamento. Oggi a far compagnia alla Beata Vergine troneggiano i papi Pio IX e Pio XII ma tra il 1726 e il 1848 ci fu una vera e propria guerra per conquistare quel “trono”: Giovan Battista Ragusa, che aveva modellato anche la Madonna, scolpì le statue dell’imperatore d’Austria Carlo VI e dell’imperatrice Cristina di Brunswick, ma quando la Sicilia ritornò nelle mani del regno di Spagna i due monumenti vennero distrutti per essere sostituiti con i volti del nuovo monarca Carlo III e della regina Maria Amalia Walburga. 

“E che fine hanno fatto le due statue?”, chiede la piccola. 

“Sono state distrutte anche loro e il bronzo è stato utilizzato per costruire i cannoni. Sono rimasti solo i quattro angeli che hanno resistito nei secoli e hanno potuto vedere com’è cambiata questa piazza con la costruzione di via Roma, la strada che ha sconvolto la vita di decine di migliaia di abitanti”. 

La bambina nemmeno può immaginare come una via che percorre più volte la settimana per andare alla vicina piazza Olivella o al teatro Massimo possa aver cambiato i cortili, i vicoli, le piazze. 

“Vedi quanto è lunga? Un chilometro e trecento settantotto metri. Ma immagina per un attimo Palermo più di cento anni fa, alla fine dell’Ottocento. Qui c’era uno dei più grandi centri storici d’Europa con quartieri anche molto poveri, vicoli brulicanti di miseria come via Bara all’Olivella; ingombri d’immondizia, costretti al buio. Quel faraonico cantiere per realizzare via Roma ha demolito tutto. Ci sono voluti più di vent’anni per terminarla”. 

In piazza San Domenico dovettero abbattere due palazzi: Monteleone e Montalbano. 

Grazie alle fotografie scattate da Emanuele Giannone abbiamo ancora le immagini di quello sventramento della città. 

“Pensa alla mappa di Palermo. Ora – spiega il papà – prendi un pennarello e tira una riga dalla stazione al teatro Politeama tagliando corso Vittorio Emanuele e piazza San Domenico. Ecco cosa ha fatto il progettista. Ai lati della via sono stati costruiti negli anni molti edifici, tra cui le sedi di alcune banche, il palazzo delle Poste, il teatro Biondo, il palazzo del Banco di Sicilia”. 

Nessuno avrebbe mai immaginato che quella strada un giorno sarebbe diventata la triste e reale scenografia di un funerale rimasto nella storia quanto o più della costruzione dell’arteria. 

Da lontano osservo quel padre e la sua bimba. Quando si incamminano li seguo e li ascolto. 

I due ora si sono spostati verso l’antica gelateria Lucchese, sorpassando il bancone con sciarpe, magliette e bandiere rosanero: “E la Vucciria è rimasta?”, chiede la piccola che a scuola ha disegnato il celebre quadro di Renato Guttuso. 

Il più antico mercato di Palermo è da sempre lì. I suoi colori, il rosso delle carni crude appese agli uncini del carnezziere; l’argento dei pesci, il roseo del tonno, il giallo aspro dei limoni e i colori delle arance e dei melloni si mischiano con gli ingialliti intonaci dei cadenti palazzi, il marrone delle cassette di legno accatastate agli angoli, i vivaci graffiti e il verde delle edicole votive agli angoli delle strade. 

La “Vucciria” dipinta dal pittore di Bagheria nel 1974 grazie alla regista Roberta Torre è entrata nelle sale cinematografiche nel 1997 con il film “Tano da morire”. Una pellicola ormai archiviata, mai vista da chi oggi ha dieci-dodici anni. 

La piccola palermitana ha in testa solo quel quadro che in classe ha provato a copiare. 

Non si riesce quasi più a distinguere l’arte dalla realtà. Basta scendere per via dei Maccheronai per toccare con mano il dipinto di Guttuso: le lampadine rotonde a 500 watt che illuminano i barattoli di ventresca di tonno che ’u sardaru espone sul suo banco, le teste dei pesce spada, le casse di frutta e verdura che circondano i passanti. Tutto è vero. Nessuna finzione. Anzi, c’è di più perché la Vucciria oggi non è solo degli storici abitanti ma è entrata a far parte delle tappe notturne dei più giovani che trascorrono le serate tra piazza Olivella e piazza Rivoluzione passando dallo storico mercato. Bisogna solo saperla osservare e conoscere. Andare a scovare ciò che non si vede all’apparenza. 

In via dei Maccheronai, quasi nascosta trovi un’edicola della Madonna non troppo lontano dall’arrotino Cambria, la famiglia che da quasi un secolo lima forbici e coltelli. La strada che porta alla piazza principale ha accolto negozi di vecchie cianfrusaglie dove puoi trovare qualche copia di Guttuso a cinque euro. 

Immancabile la sosta all’osteria Azzurra quasi a metà strada: dentro c’è un mondo che non puoi vedere da nessun’altra parte. Al bancone, a bere Marsala e l’anice Tutone nell’inconfondibile bottiglia di vetro dal collo alto con l’etichetta gialla e la marca scritta in rosso, si intervallano volti di vecchi uomini che hanno trascorso l’esistenza alla Vucciria a quelli di antiche baldracche che ancora sfoggiano quanto resta del fascino degli anni addietro. 

Sembra che il tempo si sia fermato anche in piazza Garraffello dove palazzo Mazzarino, che fa da quinta alla fontana posta al centro, mostra le sue ferite incurante dello sguardo dei turisti che si devono districare tra gatti randagi, cani affamati, facendosi strada tra il fumo dello stigghiularu e stando ben attenti a non scivolare sulle balate, le pietre del pavimento larghe e piatte, sempre bagnate. 

C’è persino un detto palermitano che le rende famose: Quannu s’asciucano i balati ’ra Vucciria… La prima volta che l’ho sentito ero un ragazzo arrivato da poco in questa città con la convinzione che la mafia potesse essere sconfitta. Ad ammazzare per poco la mia speranza fu proprio uno di quegli anziani incontrati qui al mercato con il quale avevo iniziato una discussione su Cosa Nostra. Il detto me lo tradusse lui: “Quando s’asciugherà il selciato del mercato potrai dire la tua”. Con quella frase mi convinse che la strada da fare era tutta in salita e allo stesso tempo mi mostrò un’altra faccia della Vucciria, quella che non guarda mai nessuno: il pavimento sempre umido a causa dell’acqua spruzzata sul pesce. 

Vucciria è anche sinonimo di volti che vedi magari una, due volte e ti si stampano nella mente, come quello di “Pinuzzu Ceramica” o di quell’uomo che, all’angolo di via Argenteria, cucina ’a quarume, le interiora di vitello lessate. 

Ogni anfratto è uno scorcio di storia. Lo sa bene questo papà che in via Frangiai all’angolo con via della Loggia mostra il portone di un vecchio teatro che ancora riporta la scritta: “Teatro Vittorio”. Non è cambiato molto da quando nel 1882, in una guida pratica di Palermo scritta da un tal Enrico Onufrio, la Vucciria veniva descritta così: “Baracche sudice e nere, addossate l’una all’altra che sembrano tane da bestie. Mille odori nauseabondi t’ammorbano il naso; mille voci alte e fioche, t’intronano le orecchie”. Le baracche non ci sono più ma i verbi “ammorbare” e “intronare” possono ancora essere usati. La “Vucciria” è questo. Il nome del mercato deriva da boucherie, cioè mercato della carne perché era nato come un grande mercato destinato al macello. Solo nel XVI secolo diventa “Bocce- ria della foglia”, a indicare che si vendevano altri alimenti. 

Nel XVIII secolo si trasforma da Bocceria a Vucciria, che in siciliano è poi diventata sinonimo di confusione. Qui sono passati mercanti orientali, pisani, genovesi, catalani, veneziani e amalfitani. All’epoca ogni mestiere aveva un suo angolo: c’erano gli orefici, gli argentieri e gli ambrai in piazzetta Sant’Eligio; gli aromatai, quelli che oggi chiamiamo farmacisti, erano in piazzetta Sant’Andrea. Si possono trovare ancora alcuni resti di logge mercantili che erano state costruite vicine ai palazzi. 

Vien da immaginarla la Vucciria di un tempo che fu, quando in piazza Garraffello c’era il Banco pubblico e in vicolo della Morte la casa del boia. Qualcuno come il viceré Caracciolo nel 1783 provò anche a mettere un po’ d’ordine stabilendo la disposizione dei banchi di vendita, ma con il taglio di via Roma anche lo spazio del mercato venne ridotto. 

Trecento anni più tardi è rimasto il simbolo di una città che Claude Lévy-Strauss definiva “cosa umana per eccellenza”. 

Son certo che quando quella bambina sarà grande ritroverà la stessa “Vucciria”. Magari con qualche banco in meno, con i palazzi ancor più fatiscenti ma la seduzione di questo luogo resterà la stessa. Troverà ancora chi vende cacocciole e pomodori sul cofano della macchina o sulla sella del “motore”; i panni stesi alla finestra, i venditori che attraggono la gente con le loro abbanniate, i colori, l’arte di strada che è entrata a far parte di quel mondo antico difeso dai suoi abitanti. 

Nulla ha fermato la Vucciria. Nemmeno il crollo il 5 febbraio del 2014 di una palazzina in vicolo Terra delle Mosche, a pochi passi da via dei Chiavettieri, una delle strade affollate dal popolo della notte. La Vucciria si è subito rimessa in piedi. Ha mostrato ancora una volta il suo carattere, la sua verve tramandata da quell’incontro di popoli che al mercato ha lasciato una traccia da custodire in eterno. Come la memoria. 

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