Monreale, 10 dicembre 2017 – “In quelle stanze all’ammezzato del Palazzo, Borsellino e Falcone hanno trascorso molta parte della loro vita: Paolo dal 1980 fino al dicembre 1986, quando viene nominato procuratore a Marsala; Giovanni fino al novembre 1989”. Alle stanze del Palazzo di Giustizia di Palermo Alex Corlazzoli dedica il terzo capitolo del suo libro “1992 sulle strade di Falcone e Borsellino”, che proponiamo integralmente. Per continuare nel percorso di conoscenza dei due giudici che persero la vita nella lotta contro Cosa Nostra.
Palazzo di Giustizia
Se c’è un luogo a Palermo che prima o poi incroci è il Palazzo di Giustizia.
Ci si passa davanti entrando o uscendo dal centro storico per raggiungere il teatro Massimo in piazza Verdi o per fare una passiata tra via Maqueda e via Ruggero Settimo, fino al Politeama.
Ancor più probabile fermarsi a tarda notte al chioschetto che separa via Papireto da corso Amedeo per gustare un cornetto alla crema di pistacchio sotto lo “sguardo” di questo palazzo dallo stile razionalista progettato in epoca fascista.
“Notte e giorno cornetto e cappuccino”. La scritta pubblicitaria sul tetto del baracchino non lascia dubbi. Aggiungerei: ventiquattr’ore su ventiquattro, aperto dodici mesi l’anno.
Proprio come il Palazzo di Giustizia. Dietro quei finestroni rettangolari, una luce accesa c’è sempre. Sulla rampa che arriva fino all’ingresso del tribunale più famoso d’Italia non manca mai qualche auto blu blindata.
Ogni volta che passi lì davanti non puoi fare a meno di immaginare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mentre lavorano dietro scrivanie colme di faldoni e carpette.
Il tribunale negli anni delle stragi era presidiato dall’esercito come a Beirut o a Tel Aviv. Oggi ci sono i carabinieri che sorvegliano. Sono sentinelle che nei giorni feriali, sul lato di via Giovan Battista Pagano, a ridosso dell’antico mercato del “Capo”, osservano anziane donne, mamme con i bambini che attendono fuori dal Palazzo i cellulari della polizia penitenziaria, per mandare un saluto ai mariti che transitano dal carcere dell’Ucciardone alle aule di giustizia.
È la loro Via Crucis.
“Lì dentro ci stanno gli sbirri che hanno arrestato a mio padre”, mi spiega Totò, uno dei più piccoli spettatori di questa tragica ma reale “messa in scena”.
“Che ha fatto?”, chiedo cercando di mostrare interesse. La risposta non è quella che mi aspetto: “Sei sbirro pure tu?” Lui, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, non sa nemmeno chi siano. Non riesce neanche a capire perché oggi qui al tribunale ci siano dei ragazzi poco più grandi di lui che stanno per entrare in quel mastodontico palazzo bianco che gli ha sottratto papà.
“Professo’ che fa, si porta dintra ’sti picciotti? Li fa arrestare?” Proprio così: una “gita” in procura.
Entrare a Palazzo di Giustizia a Palermo è come mettere piede in “Casa Mandela” a Soweto, in Sudafrica, o nell’ex palazzo presidenziale all’Havana. È la stessa emozione. Hai la sensazione di toccare con mano la storia, di andare oltre quello che hai letto a pagina 122 del sussidiario di terza media.
Che tu abbia quarant’anni o diciannove, come questi ragazzi che sono qui per la prima volta, non cambia: quando appoggi le suole delle scarpe su quei gradini di pietra bianca che portano alla rampa d’accesso per le auto dei magistrati sotto scorta, rivedi Giovanni Falcone mentre scende dalla macchina attorniato da uomini armati che lo proteggono.
Ogni passo lo mediti, prima di entrare. Ti guardi attorno.
Vedi quell’immensa piazza davanti a te con di fronte il bar Sanremo e all’angolo sinistro l’edicola. Poi, prima di chiuderti nel Palazzo, l’occhio inevitabilmente fugge verso porta Carini all’ingresso del mercato del “Capo” e pensi a come sia strano che a Palermo quest’austero luogo deputato a far rispettare la legge sia sorto a poche centinaia di metri dai banchi di frutta, verdura, sarde e pinoli dove fino a pochi anni fa lo scontrino fiscale non esisteva.
Chissà se anche Falcone e Borsellino avranno avuto le stesse sensazioni.
Dentro l’atmosfera cambia; per orientarsi tra i lunghi corridoi, i diversi piani e le stanze di quello che è stato definito il “Palazzo dei veleni” per i segreti che conserva, bisogna avere un traghettatore. Il nostro “Caronte” si chiama Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage in cui fu ucciso il giudice Chinnici e che Falcone e Borsellino vollero accanto, nel 1985, per informatizzare il Maxiprocesso.
Per anni è rimasto rinchiuso nel bunker del pool per microfilmare i documenti cartacei del primo processo a Cosa Nostra. È l’unico a conoscere davvero cosa è accaduto in quelle stanze collocate nell’ammezzato diventato noto come il “bunker dei due giudici”.
Da qualche anno è in pensione ma si muove nel Palazzo ancora come fosse a casa sua.
“Ogni giorno Falcone e Borsellino entravano da qui”.
Paparcuri inserisce le chiavi nella toppa di una porta a vetri oscurati al piano terra, collocata accanto ai tornelli d’ingresso. Quando apre ci si trova in un lungo corridoio, tra armadi che contengono faldoni di processi, interrogatori, deposizioni.
Per arrivare all’ammezzato bisogna fare una rampa di scale. Eccoci.
Sul citofono all’ingresso del bunker ci sono ancora i nomi di chi lavorava lì dentro: Falcone, Borsellino, Paparcuri. In alto, a sinistra, una telecamera collegata con la stanza del primo, il quale, nonostante la scorta, aveva voluto dei monitor in ufficio per vedere chi entrava. Accanto al bunker una porta di legno chiusa: per anni quella stanza è stata un ufficio postale, poi è diventata quella della segretaria di Falcone e infine il magistrato volle proprio qui una squadra della Guardia di finanza.
Paparcuri ci conduce al bunker in religioso silenzio. Sembra per un attimo di tornare a quegli anni Ottanta. Era lui ogni mattina ad arrivare prima dei “suoi” giudici. L’ex autista di Chinnici ci apre le stanze con tutta la ritualità che si addice a un luogo ritenuto sacro.
Il primo ufficio è il suo: “Falcone mi affidò questo incarico sapendo della mia passione per l’informatica. Ho iniziato il 16 aprile del 1984 e ho finito nel dicembre 2009 di occuparmi della banca dati dell’antimafia”.
Un lavoro prezioso, indispensabile, svolto con la precisione e la passione di un monaco amanuense che passa la vita nello scriptorium: “Ho letto più di cinque milioni di pagine del Maxiprocesso. Qui si entrava alle sette del mattino, ma per uscire non c’erano orari: d’altro canto anche Cosa Nostra non ha orari per ammazzare”.
Paparcuri ha conservato tutti i macchinari che sono serviti a registrare gli atti del più grande processo alla mafia, ma anche ricordi personali, fotografie.
“Lo Stato per la prima volta in quegli anni dotò l’ufficio di Palermo di apparecchiature informatiche all’avanguardia. Questo si chiamava planetario e veniva utilizzato per microfilmare i documenti. Con quest’altro, il ‘diazo’, duplicavamo le bobine. Quello era, invece, il visore utilizzato dai magistrati per vedere gli atti una volta che erano stati trasformati in microfilm”.
Su un tavolo spuntano anche due carpette gialle. Sulla prima c’è scritto in blu: “Varia corrispondenza. Consiglio superiore della magistratura e caso Palermo”; sull’altra “Riservatissimo”.
Sono lettere, carte che Paparcuri si augura restino nelle mani di pochi: “Falcone oltre a combattere la mafia doveva lottare contro le invidie e le gelosie dei suoi compagni. Si pensava che l’erede del capo del pool, Antonino Caponnetto, dovesse essere Falcone ma nominarono Antonino Meli, che si scontrò subito con tutto il pool, tanto che il 29 luglio del 1988 Falcone aveva chiesto di essere trasferito per poi decidere un mese più tardi di restare a Palermo con grande spirito di sacrificio”.
L’ex autista di Chinnici conserva ancora la lettera scritta il 21 settembre 1988 da Falcone al presidente del tribunale per comunicare la sua scelta:
Il Consiglio Superiore della Magistratura ha riaffermato nella seduta del 14 settembre la necessità che le strutture giudiziarie compiano ogni sforzo per la repressione, ha espresso la certezza che “tutti i magistrati dell’Ufficio Istruzione di Palermo continueranno ad operare nell’adempimento del loro dovere”. Tale alto richiamo mi induce ad anteporre le riconosciute preminenti esigenze di servizio a qualsiasi altra considerazione, e, pertanto, le comunico di revocare la mia domanda di assegnazione ad altro incarico”.
Non dev’essere stata facile per lui quella scelta ma il dovere per Falcone e Borsellino veniva prima di tutto.
Senso del dovere e umanità.
Lo si intuisce dalle fotografie archiviate da Paparcuri.
Una di queste è stata scattata a una cena nel 1986, quando Borsellino venne nominato procuratore a Marsala. Per salutarlo i suoi collaboratori organizzarono un momento conviviale e gli regalarono un motorino.
Borsellino seduto al centro del tavolo è sorridente, gioviale, con una polo bianca a maniche corte. Alle sue spalle Falcone in giacca e cravatta scherza e con la mano destra mima qualcosa al collega. Alla stessa tavola, composto, con un abito scuro e una cravatta grigia c’è il loro consigliere istruttore, Caponnetto. Più defilato c’è Paparcuri. E poi i volti di chi non viene mai nominato, le loro segretarie: Barbara Sanzo, Nunzia Russo, Duilia Muia.
“Il motorino venne usato da Manfredi fin quando Borsellino decise di donarlo a un ragazzo, figlio di un detenuto, che ne aveva bisogno per consegnare il pane a domicilio. Per evitare di farlo delinquere lo diede a quel giovane, togliendolo al figlio”.
Gesti indimenticabili, come quella volta che Borsellino venuto a sapere che Paparcuri si era fidanzato, lo chiamò e gli chiese di andare a Marina Longa per conoscere la ragazza: “Mi diede il suo biglietto da visita. Un foglietto di carta con su scritto Borsellino e il suo numero 8693249”.
Nella stanza all’ammezzato del Palazzo sono conservati anche i ricordi più intimi che lasciano trasparire la tenerezza, la dolcezza che c’era tra Francesca Morvillo e suo marito Giovanni. Lo si capisce prendendo in mano un “pizzino” di carta che Paparcuri ha trovato quasi per caso in un libro che Falcone gli aveva donato insieme a un portapenne e a una papera in pietra di ametista, prima di trasferirsi al ministero a Roma: “Dopo la sua morte avevo il desiderio di toccare quegli oggetti. Sono tornato a sfogliare quel libro e ho trovato un biglietto della dottoressa Morvillo. Quel testo era un regalo che la moglie gli aveva fatto e tra le pagine aveva messo quel biglietto, nella speranza che lo trovasse”.
Falcone forse non ha mai avuto il tempo di prendere in mano quel libro ma una copia del messaggio d’amore oggi è custodita nel bunker. Dice: Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca.
Mentre lo leggo a bassa voce, Paparcuri precisa: “L’originale è nella tomba del magistrato. Quando è stata traslata alla chiesa di San Domenico ho voluto che tornasse nelle sue mani”.
Per capire chi fossero i due uomini bisogna entrare nelle loro stanze.
La scrivania di Falcone è ancora lì con la sua penna stilografica; le rivelazioni di Buscetta scritte a mano, in maniera precisa e ordinata; gli assegni che usava per seguire il flusso del denaro; le sue papere di legno. E poi un libro di Giuseppe Pera: Un mestiere difficile. Il magistrato.
Il suo personal computer, Toshiba, è nelle mani dei giudici che stanno ancora indagando sulla sua morte, ma sul tavolo c’è il pc che gli era stato consegnato al ministero di Grazia e Giustizia quando andò a lavorare nella capitale. La macchina da scrivere, una Olivetti “Linea 98”, ha i tasti poco consumati: “Si è convertito velocemente all’informatica”, confida Paparcuri.
Ecco il metodo Falcone. Lo si intuisce guardando la sua scrivania.
È lui stesso a spiegarlo a Marcelle Padovani nel libro Cose di Cosa Nostra: “Traffico di droga uguale riciclaggio. È impensabile che i profitti derivati dal commercio di stupefacenti giungano ai beneficiari per vie legali. Poiché le manovre finanziarie necessarie per riciclare il denaro sporco non possono venire effettuate integralmente dalle organizzazioni interessate, il compito è affidato ad esperti della finanza internazionale, i cosiddetti ‘colletti bianchi’, che si pongono al servizio della criminalità organizzata per trasferire capitali di origine illecita verso i Paesi più ospitali, i ben noti ‘paradisi fiscali’. Raramente i grandi flussi di denaro sporco coinvolgono un solo Paese.
È indispensabile quindi una larga collaborazione tra Stati”. Quegli assegni sono le tracce che Falcone segue. I sassolini lasciati nel bosco che gli permettono di ritrovare la strada. Un lavoro che il magistrato ottimizza affidandosi all’informatica, alla raccolta dei dati nel modo più rapido possibile.
A Paparcuri piace ricordare che fu il primo a usare un data bank: “Un giorno mi chiamò e vidi che aveva tra le mani questo strano oggetto, credevo fosse la custodia di una penna. Quando lo aprì capii che era un’agenda elettronica. Da allora ogni giorno vidi Falcone annotare i suoi pensieri su quel Casio e di tanto in tanto trasferivo il materiale del data bank ai pc”. Ed è quell’agenda a essere sparita per poi riapparire dopo che il giudice è stato ammazzato. Sono scomparsi pure una ventina dei cento floppy disk su cui Paparcuri aveva trasferito l’archivio di Falcone, prima della sua partenza per Roma. Misteri che non trovano ancora una spiegazione. Qualcuno aveva l’interesse a mettere le mani sugli archivi e l’ha fatto a Palermo così come a Roma. Falcone forse immaginava che sarebbe andata così, ma ha fatto fino in fondo il suo dovere, fedele a quella frase di John Kennedy che tanto amava e che ora si trova appesa alle spalle della sua poltrona: “Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana”.
Sembra di vederlo su quella poltrona di pelle nera. Qualche volta senza cravatta, con gli occhi sulle carte, la sigaretta in bocca. Ne fumava parecchie, tant’è che un giorno, terminati i pacchetti, chiese mezzo sigaro al suo collaboratore: “Gli diedi l’intera scatola nella speranza che non la fumasse tutta. Quando se ne andò – racconta Paparcuri – mi salutò senza dire nulla dei miei sigari. Mi precipitai nella sua stanza e trovai nel cestino il pacchetto vuoto. Lo raccolsi e l’indomani scherzando gli rinfacciai il fatto che non mi avesse lasciato mezzo sigaro”.
Quel pacchetto oggi è ancora lì, vuoto, accanto alla lampada da scrivania, al registratore e a due telefoni: uno dell’ufficio e l’altro direttamente comunicante con la Questura, che gli era stato messo dopo il fallito attentato all’Addaura nel 1989. Sopra i monitor di videosorveglianza collegati con l’esterno del bunker c’è il modellino di un elicottero della Guardia di finanza che gli regalò la squadra che operava con lui in occasione del suo compleanno, e una fotografia: “È stata scattata al ministero di Grazia e Giustizia ma l’ho messa qua – spiega Paparcuri – perché ha la stessa espressione, lo stesso sorriso di quando hanno emesso la prima sentenza del Maxiprocesso. Era verso sera, mi chiamò com’era suo solito: Papa, venga qua. Arrivato nella stanza lo trovai così. Lo vidi sorridente ma non capivo: Abbiamo vinto, mi disse. Non era l’espressione di uno che si era vendicato contro Cosa Nostra, ma era la soddisfazione perché tanti anni di lavoro avevano portato a un risultato: aveva vinto una battaglia. Finalmente si poteva parlare di Cosa Nostra”.
Paparcuri se lo ricorda bene quel giorno, così come le mattinate a fare la rassegna stampa degli articoli che Falcone evidenziava: alcuni sono ancora lì, sul tavolo di fronte alla sua scrivania dov’è appoggiato il visore collegato alla stanza del suo collaboratore. Basta sfogliarli per rendersi conto che la stampa non sempre stava dalla parte dei giudici.
Se lo ricorda bene Ignazio de Francisci, oggi procuratore generale a Bologna ma allora giovane membro del pool antimafia: “Entrai nel pool l’8 novembre 1985 con un provvedimento firmato da Caponnetto, che mi fu presentato da Borsellino. Sono stati anni in cui ho imparato molto. La mia stanza era a pochi metri dalla porta del bunker e con Falcone ci vedevamo ogni giorno. Lui aveva razionalizzato e messo ordine alle indagini sulla mafia portando a termine il lavoro di Chinnici. Con Giovanni andai anche negli Stati Uniti, dov’era molto amato per la sua serietà e professionalità: spesso ci davano stanze vicine e quando prima di cena passavo a trovarlo lo trovavo sempre seduto al tavolo, con le carte, che si preparava agli interrogatori del giorno dopo. Non c’era mai dilettantismo in quello che faceva. Sono stati anche anni difficili: il ‘Giornale di Sicilia’ ci martellava, ci bersagliava ogni giorno. Era uno stillicidio di articoli che ho in parte conservato nel mio polveroso archivio. Le critiche fatte a Falcone non avevano un barlume di fondatezza. Questo clima trovò il suo acme con la nomina di Meli al posto suo. A quel punto ci sentimmo anche sconfitti”.
Attacchi ai quali Falcone rispondeva solo con il suo lavoro. Ne è testimonianza una lettera al preside della Facoltà di Magistero, Gianni Puglisi, in risposta a un invito a tenere un corso all’ateneo:
Caro Gianni, l’invito rivoltomi di tenere, nell’anno accademico 1988-89, quale professore a contratto, un corso integrativo nella facoltà di Magistero mi lusinga, ma, con sincero rincrescimento, debbo comunicarti che non posso accettare.
La tua idea di approfondire, attraverso uno stimolante confronto con gli studenti, un tema come quello del linguaggio delle organizzazioni criminose, è certamente da condividere ed ero inizialmente propenso ad accettare. Mi sembrava, infatti, un’occasione propizia per mettere finalmente ordine e dare una sistemazione teorica ad una massa imponente di dati, provenienti dall’esperienza sul fenomeno mafioso e, nel contempo, per sfatare tanti luoghi comuni e schemi mentali che costituiscono causa non secondaria della insoddisfacente conoscenza del fenomeno.
L’enfatizzazione fin da adesso di questa iniziativa, però, rischia di snaturare gli scopi di questo corso che dovrebbe costituire non già passerella per chicchessia, ma mezzo di approfondimento serio di una materia la cui importanza è superfluo sottolineare. E già dai primi articoli di stampa riaffiora, anche stavolta in maniera distorta e strumentale, la solita polemica sui “professionisti dell’antimafia” e sui riconoscimenti, anche attraverso “laute prebende”, di cui costoro godrebbero. Ho letto anche che il Magnifico Rettore, evidentemente interpretando una preoccupazione diffusa, ha espresso timore per l’incolumità degli studenti, che sarebbe messa a repentaglio dalle mie lezioni: un pericolo certamente da non sottovalutare.
Mi sembra abbastanza prevedibile, dunque, che questa iniziativa, lungi dal raggiungere quegli scopi di studio e di approfondimento teorico di cui si è detto, costituirebbe soltanto occasione per le solite polemiche su mafia e antimafia che hanno l’unico effetto di distogliere l’attenzione dai reali problemi che attanagliano la Sicilia.
Credo, quindi, che l’unica cosa da fare sia mettermi da parte, con la speranza che ciò serva a qualcosa, oltre che a tutelare l’incolumità degli studenti.
Falcone continua a restare nel suo bunker tra le carte delle dichiarazioni del pentito Antonino Calderone e quelle degli interrogatori a Tommaso Buscetta, oggi raccolte in faldoni custoditi dietro armadi a vetro.
Parole scritte che raccontano quali mani ha stretto Falcone, chi è passato in quella stanza: colleghi magistrati, uomini come l’agente segreto Bruno Contrada ma anche la mamma di Emanuela Setti Carraro, moglie del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, e poliziotti onesti, ammazzati dalla mafia, come Ninni Cassarà, “l’unico che non chiudeva la porta blindata convinto che i suoi uomini lo seguissero”. Ma soprattutto collaboratori di giustizia: il già citato Buscetta, molto vicino al mondo politico ma anche evasivo in questo campo; Totuccio Contorno, semplice esecutore di ordini che offrì una fedele rappresentazione di un “perfetto” soldato; Calderone, che Falcone descrive come “uno molto umano e sensibile”; Francesco Marino Mannoia, che fornì le informazioni più recenti su Cosa Nostra, e poi Vincenzo Sinagra, che diede la possibilità di scoprire i rapporti tra mafia e criminalità non mafiosa.
Con alcuni di loro Falcone era stato capace di stringere un rapporto unico: “Conoscere i mafiosi ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni”.
Una professionalità dal volto umano non sempre facile da mantenere di fronte a certi individui. Lo sa bene Paparcuri: “Guarda la scrivania. L’ho ritrovata dopo anni al registro civile e l’ho riconosciuta perché c’è questo buco. Lo fece un detenuto che si gettò a terra e picchiò le catene ai polsi sul tavolo”.
Uno dei pochi che riusciva a strappare un sorriso a Falcone, sommerso da carte e interrogatori, era Paolo Borsellino: ogni volta che Giovanni si allontanava da Palermo, Paolo andava nella sua stanza, gli rubava una delle sue papere, la nascondeva in cassaforte, faceva sparire la chiave e lasciava un messaggio all’amico: “Se la papera vuoi trovare, cinquemila lire devi lasciare”.
Era così Borsellino: bastava guardarlo negli occhi, osservare il suo modo di fumare, vedere il suo sorriso, semplice, nascosto dai baffi, per intuire la dolcezza che lo rendeva un padre attento e premuroso ma anche un fratello, uno zio allegro, persino desideroso di spensieratezza.
Non è un caso forse se nella sua stanza ciò che colpisce appena entri è quella copia del “Bacio” di Gustav Klimt, appesa dietro la sua poltrona. Chissà perché avrà messo proprio quell’immagine dov’è raffigurato un uomo – del quale si intravede solo il profilo – che stringe la testa dell’amata con delicatezza, protendendosi verso di lei in segno protettivo e di affetto.
Paparcuri non lo sa. Forse non ha mai trovato nemmeno il coraggio di fare al giudice una domanda così intima, personale. Ma non è certo un caso il fatto che abbia scelto proprio quel quadro. Così come non dev’essere una coincidenza che accanto a quel “Bacio” vi sia una stampa della cattedrale di Palermo. Borsellino amava la sua città e di lei diceva: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.
E lo affermava con il suo solito sorriso, quello della foto che ora è sul tavolo accanto alla scrivania. Uno scatto fatto proprio dal collaboratore dei due magistrati: “Avevo appena finito di installare i terminali nella stanza di Falcone e lui venne a provarli”. Camicia bianca, cravatta, senza giacca, Borsellino con la mano destra pigia un tasto del computer. Un gesto come un altro, un atto quotidiano rimasto appeso alla memoria di chi ha lavorato giorno e notte in queste stanze.
Se potessero parlare le macchine da scrivere di Borsellino lo potrebbero testimoniare: a casa ne aveva una elettrica con la quale poi il figlio Manfredi scrisse la sua tesi di laurea, mentre in ufficio l’Olivetti “Linea 98” grigia con i tasti color beige è accanto al posacenere. Un suppellettile inutile, quest’ultimo, perché ogni volta che il giudice accendeva una sigaretta la cenere arrivava al punto di cadere da sola.
Una delle sue agende di pelle marrone sulle quali teneva gli appunti è ancora lì sul tavolo, così come una delle borse dove teneva anche la pistola, perché Borsellino girava armato.
E poi documenti, fogli, tracce del suo lavoro.
Una scrittura precisa, ordinata, quasi schematica: “Su questo foglio che sembra un elenco di formule c’è tanto orrore e morte. Queste – spiega Paparcuri – sono persone scomparse che i magistrati non sapevano che fine avessero fatto fino al pentimento di Vincenzo Sinagra. Grazie a lui si è scoperto che questi individui erano stati prima torturati e poi sciolti nell’acido. Sto parlando del ritrovamento della camera degli orrori a Sant’Erasmo”.
Falcone e Borsellino avevano visto la mafia in volto ma nessuno li ha mai protetti. Nemmeno lo Stato, che consegnò loro una specie di impermeabile blu alla Sherlock Holmes, imbottito, e una borsa, spacciati dal ministero per efficace protezione antiproiettile. Falcone appena li vide prese il soprabito e andò con la sua scorta al poligono. Chiese loro di sparare al capo d’abbigliamento, che finì sforacchiato come un colabrodo. Quello di Falcone non c’è più, ma il soprabito di Borsellino è ritornato nella sua stanza: “Paolo era piccolo di statura. Quel dono del ministero non avrebbe mai potuto indossarlo, così lo regalò a un amico che dopo anni l’ha riportato qui”.
È riapparsa anche una copia della tesi di laurea di Borsellino pubblicata con il titolo “Il fine dell’azione delittuosa” da Giuffrè Editore nell’anno accademico 1961-1962, e sulla scrivania c’è il suo tocco, quello indossato al funerale del suo collega, amico e fratello Giovanni. Vengono i brividi solo a guardarlo. Verrebbe voglia di sfiorarlo, di passare teneramente la mano su quel velluto nero per abbracciare Borsellino, ma poi prevale un sacro timore.
Appoggiando le mani su quella scrivania, vengono invece in mente le innumerevoli riunioni del pool.
In quelle stanze all’ammezzato del Palazzo, Borsellino e Falcone hanno trascorso molta parte della loro vita: Paolo dal 1980 fino al dicembre 1986, quando viene nominato procuratore a Marsala; Giovanni fino al novembre 1989, quando – diventato procuratore aggiunto – viene trasferito al secondo piano, oltre ad avere a disposizione ancora anche il bunker.
Una vita che nessuno di noi forse saprebbe sopportare: “Borsellino ogni tanto andava al bar, a comprare le sigarette o a pagare le bollette alla Posta; Falcone, invece, si infilava in ufficio e non usciva più. Viveva blindato”, ricorda de Francisci.
Quell’attività la descrive bene Antonino Caponnetto, il loro capo: “Quasi ogni sera, quando il lavoro di ognuno lo consentiva, ci incontravamo, inizialmente nel mio ufficio. In seguito, per ragioni di sicurezza, fu attrezzato il bunker di Giovanni, al piano ammezzato, e ci incontravamo da lui. Un sistema di telecamere a circuito chiuso ci consentiva di vedere le persone che si avvicinavano; c’erano poi le porte blindate che immettevano negli uffici di Giovanni e di Paolo; il materiale processuale era custodito nelle loro casseforti. Le riunioni duravano due o tre ore, ogni sera. Spesso si faceva tardi; io ero legato agli orari della mensa; in caserma il pranzo era servito all’una e mezza, la cena fino alle nove; e guai a ritardare, altrimenti mi lasciavano in camera solo qualcosa di freddo. Queste riunioni erano un modo per tenerci informati sull’andamento dell’istruttoria, per individuare di volta in volta alcune direttive di lavoro. Non ci furono mai scontri, liti, fra di noi. Solo tra Giovanni e Paolo, ma per cose marginali, perché i loro temperamenti erano quelli. I motivi dei loro contrasti erano spesso insignificanti. ‘Guarda che questo mafioso è di quella famiglia’. ‘No, guarda che è di quell’altra…’ Un nome, un cognome, omonimie, parentele: la sfida tra i due era a chi ricordava meglio, e fino a quando non si erano chiarite le ragioni delle divergenze, andando affannosamente a compulsare gli atti, non la finivano più”.
Caponnetto è l’uomo che li ha conosciuti meglio e che li ha accompagnati fino alla fine nel Palazzo di Giustizia.
Lui, ormai in pensione a Firenze, tornò tra i corridoi e le stanze della procura per vegliare la salma di Giovanni Falcone e dei tre uomini della scorta, Rocco, Vito e Antonio.
Ritornare in quell’atrio al primo piano e immaginare quelle bare tra il silenzio della folla rotto dalle grida di dolore dei familiari, è un ricordo triste per tutti, per chi c’era quel 1992 e per chi non era ancora nato.
Quando arrivò la salma di Giovanni Falcone, Paolo, con la moglie Agnese, il figlio Manfredi e le due figlie, era già lì. In uno scatto in bianco e nero, pubblicato dal “Corriere della Sera”, lo si vede in toga, sconvolto, con il viso solcato dalle lacrime e le mani appoggiate sulla bara: “Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega e amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua”, spiega Manfredi.
Lacrime e rabbia. Come quelle del collega Vittorio Teresi che con il cronista della “Repubblica” ruppe il suo consueto silenzio per dire: “Ma no, basta. Basta. Chiudiamolo questo Palazzo di Giustizia di Palermo. Teniamo le porte sbarrate per quattro, cinque anni. Diciamo ai politici: noi giudici ci fermiamo, siamo davvero stanchi. Ora, lavorate voi…”
Tutti lì, i magistrati, a fare da picchetto alle bare, a mostrare la faccia disperata, indignata, ai palermitani che dalle tredici di domenica 24 maggio fino alle sette di lunedì sfilarono composti nella camera ardente. Persone di ogni età, di tutte le classi sociali, di ogni quartiere arrivarono in quell’atrio per portare un fiore, per mandare un bacio con le mani, per piangere. In molti riconobbero Caponnetto: “Cosa dobbiamo fare ora, signor giudice?”
E lui impietrito dal dolore non trovava le parole.
Venticinque anni dopo in quel Palazzo non cerchi le bare, ma il ricordo degli sguardi dei due magistrati mentre parlano, mentre si scambiano pareri.
C’è una vecchia fotografia di Egidio Scaccio che li ritrae assieme in un angolo del tribunale: Paolo, con una mano in tasca e l’altra che gesticola, indica un numero con le dita e guarda fisso negli occhi Giovanni che con entrambe le mani in tasca sembra sorpreso dalle parole di Borsellino.
Ad aiutare l’immaginazione sono le statue in gesso a grandezza naturale dei due magistrati, realizzate da Tommaso Domina: Paolo, in piedi con in mano una sigaretta, scambia un sorriso con Falcone, seduto su una panchina.
Una scena forse mai esistita, visto che nessuno di loro avrebbe mai potuto permettersi una passeggiata in centro città senza avere attorno gli agenti armati.
Da alcuni anni, quelle statue sono al piano terra del Palazzo, dopo essere state vandalizzate nella centrale via Libertà, proprio in occasione del diciottesimo anniversario della strage di via D’Amelio. Forse il loro posto era questo, tra i giovani che hanno scelto il lavoro di avvocato o di magistrato proprio perché sono esistiti Falcone e Borsellino, tra i colleghi che continuano a combattere la mafia e le mafie, nelle stesse stanze.
Molti di loro sono all’ultimo piano del Palazzo.
Bisogna attraversare un labirinto di corridoi, prendere scale e ascensori, passare tra armadi di metallo che contengono chissà quali segreti di Stato o forse solo polverosi interrogatori che mai più nessuno prenderà in mano.
Pensi ancora una volta a quei gradini: chissà quante volte li avranno fatti i due magistrati; Rocco Chinnici; Gaetano Costa, il procuratore ucciso anche lui dalla mafia; il commissario Cassarà, il capo della squadra catturandi Beppe Montana. Tutti sterminati dalla criminalità organizzata.
Oggi nella stanza che Paolo Borsellino ebbe quando nel 1992 tornò a Palermo come procuratore aggiunto c’è Vittorio Teresi. Prima di entrare nel suo ufficio mi fermo davanti alla porta. Guardo i ragazzi della scorta, fermi nel corridoio. Tendo le orecchie ai loro discorsi. Parlano dei figli, delle loro famiglie, di cosa faranno nel week-end, fingendo di non rendersi conto che la loro vita potrebbe terminare prima.
Prima di suonare il campanello provo a immaginare la voce di Paolo. Per qualche istante fisso la maniglia: quanti traditori avranno aperto quella porta? Quando decido di bussare trovo un magistrato che conosce ogni passo di questa storia. Non dev’essere facile ricoprire quel posto, sedere sulla poltrona “scomoda” di Paolo Borsellino.
Teresi ha conteso quell’ufficio con un altro collega, Antonio Ingroia.
E da lì ogni giorno si sente più vicino a Borsellino: “La cosa più frequente che faccio quando penso a lui seduto qui al mio posto è affacciarmi alla finestra e rendermi conto di quanto sia diverso il panorama oggi: questa piazza, questo grande parcheggio, questi alberi, questa zona ormai quasi tutta pedonale non c’erano ai tempi di Paolo. Nel 1992 qua c’era una strada nel mezzo, che tagliava questo bellissimo spiazzo: il traffico caotico, il rumore, i clacson… Quasi simbolicamente mi dico che c’è un miglioramento, tutto sommato; c’è un’evoluzione delle condizioni delle persone rispetto a quelle che vedeva lui da questa finestra. E mi rendo conto che questo cambiamento è dovuto anche a quello che ha fatto Paolo per Palermo”.
Osservare la città da qui, dall’ultimo piano del Palazzo, è come vedere una cartolina.
Uscito dalla stanza che fu di Borsellino, mi fermo a godere del panorama. Davanti a me l’imponente cupola del teatro Massimo costruita grazie a una gru ideata per l’occasione. A sinistra spunta Monte Pellegrino con quel misterioso Castello Utveggio in stile liberty e poi, sullo sfondo, il mare, con il suo cantiere navale, con le braccia meccaniche e le navi da crociera che sbarcano turisti che fanno tappa un giorno a Palermo e l’altro a Barcellona e l’altro ancora a Lisbona, senza entrare nel ventre di nessun posto. Nemmeno di questa città che per conoscerla bisogna spogliarla, è necessario scoprire la sua intimità, sentire i suoi profumi ma anche i suoi odori, toccarla, viverla.
Vengono in mente le parole di Rosario La Duca, che ha dedicato la vita a raccontare Palermo: “La vita di ogni città assomiglia a quella degli uomini: essi nascono, crescono, assolvono ad una loro ben precisa funzione sociale, sono protagonisti di avvenimenti lieti e tristi, infine invecchiano con maggiore o minore dignità, poi muoiono. La vita di una città, a differenza di quella degli uomini, ha spesso la durata di molti secoli, di millenni addirittura, ma quando vengono a mancare quelle condizioni, quasi sempre di natura economica, che hanno sostenuto l’insediamento umano, allora anche la città muore. Ma Palermo, la tua città, è ancora viva e palpitante…”