Monreale, 15 luglio – “Una preghiera non si nega a nessuno, neanche al capo di Cosa nostra passato a miglior di vita con il peso di venti ergastoli sulle spalle”. L’Arcivescovo di Monreale con queste parole ha spento sul nascere le polemiche tra chi trova giusto riconoscere a Bernardo Provenzano una “pietas” umana e chi non piega il capo nemmeno durante la morte, anzi, festeggia.
Così la salma del superboss di Corleone tornerà nella sua città natale, all’interno di un’urna. Nella giornata di ieri i familiari, dopo l’esame autoptico eseguito sul suo corpo, hanno autorizzato la cremazione. Nessun funerale pubblico, ma solo una benedizione alla presenza dei familiari dentro il cimitero di Corleone
“Provenzano ha subìto la giustizia umana. Non so se in punto di morte o se prima, durante la detenzione, si sia confessato o si sia pentito davanti a Dio. In punto di morte tutti i peccati possono essere perdonati dal confessore – spiega il vescovo facendo riferimento alla scomunica papale dei mafiosi – Nell’anno della misericordia tutti i sacerdoti possono assolvere dalla scomunica che non è una condanna all’inferno, ma una censura ecclesiastica: un modo per dire ‘stai attento’”.
Mons. Pennisi decide quindi di prendere una posizione di clemenza che non ha trovato nessun dissenso nella maggior parte dei familiari delle vittime, da Maria Falcone che trova “giusto che la famiglia possa portare un fiore sulla tomba del proprio caro” a Claudio Fava che non si associa al coro di chi gioisce. “È morto Provenzano – afferma – E io non riesco a provare nulla, né sollievo né risentimento. La morte di questo vecchio mi la scia indifferente. Forse è la punizione peggiore per quelli come lui, vissuti nel mito della loro onnipotenza: la nostra indifferenza. Punto”.
“Non riesco a provare nulla – ha detto con freddezza Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto – Ho sempre pensato ai mandanti dei delitti che hanno insanguinato Palermo e che hanno straziato la vita di centinaia di persone, molte volte innocenti, come a persone senza sguardo, anche se con lo sguardo potevano decidere un assassinio. Erano latitanti per lo Stato, certo. Ma io ho pensato a loro come a latitanti dalla condizione umana. Per questo quando il 10 febbraio del 1986 entrai nell’aula bunker del maxiprocesso di Palermo e scrutai le gabbie in cui Provenzano non c’era, ma che erano ugualmente zeppe di killer e macellai, non provai nulla, stupendomene come per incanto, perché mai lo avrei detto. Giustizia sì, capii quella volta; ma nessuna vendetta, nessun perdono, materia che richiede l’esistenza di qualcuno. Per questo anche oggi non provo nulla. Assolutamente nulla”.