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“Sono le 17,56 minuti e 48 secondi e la Croma di Falcone è al chilometro 4,733 dell’autostrada all’altezza di Capaci”

“Capaci”. Nel quarto capitolo del suo libro “1992 sulle strade di Falcone e Borsellino”, Alex Corlazzoli parte dalla strage di Capaci per illustrare il contesto politico nel quale operava Giovanni Falcone e per raccontare i risultati conseguiti negli ultimi anni di vita del magistrato.

Capaci 

“Sei mai stato a Capaci? Se hai la macchina ti porto io. Lì hanno ucciso Giovanni Falcone”. 

Manuele, undici anni, interrompe la partita per prendersi questo impegno con me. 

Da oltre trenta minuti mi sono messo a giocare a calcio con lui e un gruppo di suoi coetanei. Per strada. Perché a Palermo le partite a pallone si svolgono ancora sulla piazza, sul marciapiede, nei cortili. 

La rete, da una parte del campo, la fanno due cappellini; dall’altra, due lattine di Coca-Cola. 

I miei compagni di squadra sono Manuele, Salvatore, Calogero, Giovanni, Franco detto Ciccio: i ragazzi dello Zen, un quartiere senza nome, dove fino a poco tempo fa non c’era alcun campo da calcio ma una piazza-discarica con lo scheletro di un’automobile a far da monumento. 

Non è facile crescere in un posto così. 

Inimmaginabile per i miei alunni Federico, Cristian, Chiara che a Casaletto Vaprio, in provincia di Cremona, il pomeriggio, suonata l’ultima campanella a scuola, possono scegliere se andare a giocare nel campo dell’oratorio, ai giardini pubblici attrezzati per le partite o fare l’allenamento con la società sportiva. 

Molti palermitani sfiorano lo Zen passando da via Regione Siciliana, intravedendo da lontano i palazzoni gialli ad alveare costruiti nel 1962 dall’architetto Vittorio Gregotti. Se non lo conosci neanche ti accorgi della sua esistenza: non c’è un solo cartello sull’autostrada che indichi la zona di espansione nord. 

Quando esci da Palermo attraversando la città dall’interno, prendendo viale Strasburgo, l’ultimo ricordo che hai è quello dello stadio “Renzo Barbera”. 

Poi, dopo qualche minuto, l’azzurro del mare spunta improvvisamente davanti agli occhi, quasi fosse un ultimo saluto prima di un viaggio. 

Si passa da lì per andare alla spiaggia della nota località balneare di Mondello, per raggiungere i ristoranti di pesce a Sferracavallo, per partire da quello che prima delle stragi era chiamato aeroporto di Punta Raisi. 

Il 23 maggio anche Giovanni Falcone avrebbe dovuto attraversare quella strada, a poche centinaia di metri dallo Zen. Tornava a casa, in via Notarbartolo, un luogo oggi diventato simbolo per i palermitani e non solo. Tutti sanno dov’è. Probabilmente lo conoscono anche questi ragazzi cresciuti in una periferia lontana da tutto: dal centro storico, dall’arte, dai luoghi della memoria. 

Aspetto il quarantacinquesimo minuto per tornare a parlare loro di cose serie. 

Ora tocca a me stare in porta. 

Pìgghia ’a palla, pìgghiala. Tira portiere, tira”, grida Calogero pensando che io sappia giocare sul serio. 

Per fortuna c’è la fine del primo tempo. Ci sediamo per qualche istante su un muretto che costeggia la strada. La mia “squadra” si passa di bocca in bocca una bottiglietta d’acqua gelida. La porgono anche a me. Mentre prendo in mano la bottiglia li guardo uno a uno: “Ma a voi che vi hanno raccontato di Capaci, di Giovanni Falcone?” 

Salvo ha l’aria di quello che la sa. Il pallone non lo molla da sotto i piedi e ci prova: “All’autostrada c’è la lapide perché li hanno uccisi tutti. Era l’anno che è nata mia sorella. Io non c’ero ma ho visto il film e me l’ha raccontato mio padre”. 

Non avremmo mai voluto narrare di stragi a questi ragazzi. Non avremmo mai voluto mostrare su un’autostrada quelle due stele rosse con i nomi degli agenti ammazzati. Avremmo preferito continuare a mostrare i graffiti della street art dipinti sotto i cavalcavia o lungo i muri della metropolitana. 

Nei primi anni Novanta avevamo tutto: mamma e papà potevano divorziare se non si amavano più; chi voleva lavorare un’occupazione la trovava. Chi studiava avrebbe presto raggiunto il traguardo del diploma: bastava quello per inserirsi nel pianeta dei “grandi”. Erano appena terminati i Mondiali, che ricorderemo sempre per Roberto Baggio e Totò Schillaci. 

Andavamo tutti a scuola con gli zaini Invicta e il walkman in tasca. I più audaci portavano le Dr. Martens ai piedi. 

Dal barbiere, in ditta, a scuola, tutti tentavano la fortuna con la schedina del Totip. 

Noi ragazzi dei Novanta eravamo i primi ad accarezzare l’idea di studiare all’estero, ma pochi sarebbero partiti. 

La vicenda più brutta con la quale fummo costretti ad avere a che fare fu la guerra del Golfo. Improvvisamente il Kuwait diventò noto anche a noi studenti che neanche conoscevamo la capitale e i colori della bandiera verde, bianco, rosso e nero. 

Al liceo ogni mattina prima di far lezione ci incontravamo nello scantinato della scuola per pregare per la pace. 

La notizia dell’uccisione di Libero Grassi, un commerciante che si era opposto al pagamento del “pizzo” alla criminalità organizzata, non ci aveva toccato. Forse nemmeno l’avevamo saputa. La mafia era roba del Sud. A noi “polentoni” non apparteneva. 

Le nostre strade non erano intitolate al commissario Boris Giuliano, a Ciaccio Montalto, al capitano Basile ammazzato con in braccio la figlia durante la processione del “Santo Crocifisso”. Ero cresciuto tra piazza della Vittoria e via IV Novembre, senza sapere che quella data ricordava la fine della prima guerra mondiale. 

Gli anni della paura, quelli del terrorismo li avevamo lasciati alle spalle: il 9 maggio del 1978 faceva ormai parte dei minuti di silenzio che il professore delle scuole medie celebrava rispettando con solerzia la circolare ministeriale. 

Il 23 maggio 1992 non ce l’aspettavamo. Forse nemmeno al Sud lo avrebbero immaginato così quel giorno. 

Ci siamo trovati tra le mani la storia senza accorgercene, siamo diventati tutti involontariamente cronisti scrivendo ciascuno una pagina da raccontare. 

Proprio come ha fatto il padre di Salvatore, che oggi ha quarantatré anni: “Mio papà mi ha detto che Falcone tornava da Roma. Si era dato appuntamento con Borsellino per la sera stessa. Lo andarono a prendere con tre macchine all’aeroporto, ma venne seguito lungo tutto il tragitto. E poi com’è successo? Come hanno fatto a distruggere un’autostrada quel 23 maggio?”, si domanda il giovane calciatore dello Zen seduto a bordo campo con le gambe incrociate. 

Chi ricorda tutto è Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone, rispondo. 

Il giorno prima il magistrato lo chiama comunicandogli che non è certo del suo arrivo l’indomani a Palermo a causa di un impegno di lavoro della moglie Francesca, anche lei magistrato e impegnata fino a poche ore prima come componente della commissione d’esame per un concorso per l’accesso alla magistratura. 

Sabato 23 maggio il telefono di Costanza squilla all’alba. Sono le sette. Dall’altra parte della cornetta c’è Falcone. Avvisa che arriverà a Punta Raisi alle 17,45. L’autista di fiducia allerta la scorta. Pochi minuti prima dell’arrivo del volo gli uomini delle forze dell’ordine sono già sulla pista d’atterraggio con tre auto blindate: una Fiat Croma marrone, una bianca e una azzurra con a bordo gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. 

Quando il “Falcon 10” atterra, Falcone sale sulla Fiat Croma bianca al posto di guida. Accanto siede la moglie. Costanza va ad occupare i sedili posteriori dell’auto. 

Sembra di rivedere la scena. Le auto con il lampeggiante blu acceso. Le mani del giudice che poggiano sul volante, le chiavi nel cruscotto. Gli sguardi della scorta che si incrociano, che si parlano senza dire una sola parola. E poi via verso Palermo. Quando escono dall’aeroporto, prendono l’autostrada A29. 

Non c’è il sole di sempre ma il termometro segna 23 gradi. Fa caldo. 

Non molto distanti da loro due mafiosi, Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondo, avvertono un altro sodale, Gioacchino La Barbera, che le blindate sono partite. 

Ventotto chilometri separano Punta Raisi dalla casa del giudice in via Notarbartolo. 

Falcone vede per l’ultima volta il mare che lo accompagnerà fino all’ultimo istante. 

Nel tratto di costa che va da Cinisi all’Isola delle Femmine l’acqua è cristallina e riflette i colori verde e marrone della montagna. A maggio non ci sono ancora i turisti ma non mancano i pescatori che a quell’ora si fanno vivi sulle spiagge tra Pozzillo e Capaci, terra aspra di coltivazioni ma con un mare ricco di tonni. 

Falcone preme l’acceleratore fino a 120-130 chilometri orari. 

Lui non lo sa ma in una stradina parallela all’autostrada c’è qualcuno che lo segue: è La Barbera che resta in perenne contatto telefonico con Antonino Gioè e Giovanni Brusca, che si trovano su una collinetta sopra Capaci da dove si vede perfettamente la carreggiata. Vanno nella stessa direzione ma su strade diverse. Non si incontreranno mai. 

La Fiat Croma marrone fa da apri-pista, avanza per poi frenare e attendere la Croma bianca del giudice. Dietro, l’ultima blindata cerca di occupare tutte e tre le carreggiate dell’autostrada per impedire a qualsiasi altra autovettura di accostarsi. 

L’unico a poter raccontare gli ultimi minuti prima dell’attentato è Costanza, scampato alla strage: “Falcone in auto sembrava assente, con la testa altrove. Mi chiese se la macchina che doveva portare a Roma dove circolava senza scorta fosse pronta. Poi mi comunicò che una volta arrivato a casa doveva andare a un incontro con altri magistrati”. 

È a quel punto che l’autista gli ricorda che dovrà restituire il mazzo di chiavi della Croma. “Falcone – rammenta – compie un gesto inatteso: istintivamente spegne la macchina; toglie le chiavi dal cruscotto e me le passa”. Costanza resta sconcertato, trova solo il tempo di dire al “suo” giudice: “Ma così ci ammazziamo!” Bastano quelle quattro parole per “risvegliare” Falcone, per fare in modo che si renda conto che ha fatto un gesto assurdo, inspiegabile. 

Questione di secondi. Momenti che raccontano i pensieri di un uomo sempre assorto nel suo lavoro. Attimi che soprattutto permettono di rallentare l’auto e di salvare una vita, quella di Giuseppe Costanza. In macchina è calato il silenzio. Francesca Morvillo non reagisce a parole ma solo con una smorfia. L’ultima. 

Brusca è su una collinetta tra la sterpaglia, su quel bordo di terreno che consente di controllare persino gli aerei che atterrano a Punta Raisi. Dall’alto vede il corteo arrivare. 

Sono le 17,56 minuti e 48 secondi e la Croma di Falcone è al chilometro 4,733 dell’autostrada all’altezza di Capaci. 

Un attimo dopo è l’inferno: 500 chili di esplosivo disintegrano quel pezzo della A29. Non c’è più nulla. Solo un cratere che apre un buco nella storia d’Italia. 

La Fiat Croma marrone viene investita in pieno dall’esplosione: balza oltre la carreggiata opposta e finisce in un giardino di olivi. L’auto di Falcone si schianta contro il muro di detriti che si alza in aria. L’ultima auto riceve pezzi di cemento, di terra, addosso, ma gli agenti riescono a sopravvivere. 

È una scena raccapricciante. Difficile da raccontare. 

I miei compagni di gioco ora sono attenti, assetati di curiosità. La palla è ferma sotto il piede di Salvo che da qualche minuto ha finito di giocherellare per ascoltare meglio. 

Calogero non mastica più il chewingum ma apre la bocca solo per una domanda: “La moglie si è salvata?” 

D’istinto mi vien da pensare che dovrebbe saperlo anche se ha tredici anni, ma non è così. Non può essere così. 

È lo smartphone ad aiutarci a rispondere alla domanda del giovane calciatore dello Zen. 

Cerco su YouTube l’edizione straordinaria del Tg di Rai Uno: “Buonasera, siamo in grado di darvi le prime immagini dello spaventoso attentato in cui ha perso la vita il giudice Giovanni Falcone e almeno tre uomini della scorta. Venti le persone che sono rimaste ferite. In collegamento con Palermo c’è Salvatore Cusimano”. Partono le immagini: scene di guerra. Il terriccio è ciò che resta dell’autostrada. Le corsie sono irriconoscibili. Si vedono solo lamiere contorte, un’auto al centro e una appena dietro. Non si capisce qual è quella di Falcone. Il giornalista dice che tra i feriti c’è la moglie di Falcone, ma anche lei non ce la farà. 

Tra le macerie si aggirano poliziotti, carabinieri, operatori sanitari, vigili del fuoco smarriti, impotenti. Un elicottero sorvola l’intera zona: il rumore delle pale arriva fin dentro le nostre case senza lasciarci pace. 

L’inquadratura della telecamera mostra due cartelli stradali verdi: uno con la scritta bianca “Palermo” e la freccia rivolta in direzione dritta; l’altro con stampato in bianco “Capaci” con la freccia rivolta verso l’uscita dell’autostrada. 

Il giornalista in diretta da Palermo parla di mille chili di tritolo collocati in una canaletta che passa sotto la strada. 

Ciccio interrompe il video: “Come li hanno messi tutti quei chili là sotto?” 

Con degli skateboard. Sotto il cunicolo che serve a drenare l’acqua piovana dell’autostrada non arrivarono a mettere mille chili di miscela esplosiva, ma 500 caricati attraverso un gioco da ragazzi. 

Quasi venticinque anni dopo a finire all’ergastolo sono gli esecutori materiali della strage di Capaci: chi ha reperito l’esplosivo e il telecomando, chi l’ha premuto, chi si è occupato del trasporto ma dei mandanti, di coloro che hanno “ordinato” di far fuori Falcone non si sa nulla. 

Un siciliano ogni volta che passa davanti a quei cartelli verdi con la scritta bianca “Capaci” non riesce a restare indifferente. Fino al 2004 a ricordare, se ce ne fosse stato bisogno, quanto avvenuto quel 23 maggio era solo una striscia rossa verniciata sul guarrail. Quel rosso, che interrompeva bruscamente la sequela di azzurro e verde che si vedeva a sinistra e a destra della A29 guardando il mare di Isola delle Femmine e le montagne, parlava più di ogni monumento, lasciando spazio alla commozione. 

Oggi ci sono due stele con lo stemma della Repubblica: la stella sovrapposta a una ruota dentata d’acciaio, simbolo del lavoro, racchiusa da un ramo di quercia che simboleggia la forza e la dignità del popolo italiano, e da uno di olivo, che rappresenta la volontà di pace dell’Italia. Lavoro, forza, dignità, pace: valori che fatico a spiegare a questi ragazzini che vivono in un luogo senza pace, senza lavoro e dove la dignità va conquistata ogni giorno. 

Il pallone è ancora fermo sotto i piedi di Salvo. Non lo passa. Non lo lancia nel campo. Le due squadre ora sembra che abbiano più voglia di farmi una raffica di domande piuttosto che mettermi a parare calci di rigore. 

“Scusa ma perché hanno ucciso proprio lui? Che aveva fatto di male più degli altri magistrati?”, mi chiede Ciccio. 

Calogero ha la risposta: “Ciccio amunì, iddu era ’u nemico numero uno della mafia”. 

Proprio così: Giovanni Falcone negli anni prima dell’attentato aveva dimostrato con il Maxiprocesso che l’organizzazione criminale si poteva sconfiggere, e anche a Roma, dove dal marzo del 1991 lavorava come direttore degli Affari Penali del ministero della Giustizia, stava lavorando a questo scopo. 

Se n’era andato da Palermo in contrasto con l’allora procuratore Giammanco, dopo anni di isolamento, dopo aver visto la morte del pool antimafia con il quale lui e gli altri magistrati erano riusciti a istruire e concludere lo storico Maxiprocesso. 

Rivediamoli quei fatti. Per Falcone è l’inizio della fine. 

Il magistrato, quando il Consiglio superiore della magistratura nel 1988 nomina a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale Antonino Meli, parla di “normalizzazione”. Si torna indietro. Anzi è il momento dello “status quo”. O forse peggio. Due anni dopo Falcone chiede di essere destinato a un altro ufficio. 

Il 21 giugno del 1989 tentano di farlo fuori mentre si trova nella sua casa estiva all’Addaura, vicino a Mondello. È un mercoledì, non c’è molta gente in giro, ma qualcuno nella notte ha piazzato cinquantatotto candelotti di esplosivo in un borsone sportivo lasciato nella spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato. 

Sono le 7,30 quando gli agenti di polizia trovano l’esplosivo. 

Quel giorno, all’Addaura, Falcone attende i colleghi svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann, con cui deve discutere di un filone dell’inchiesta denominata “Pizza connection” che riguarda il riciclaggio di denaro sporco. 

Forse non è un caso che il tentato agguato avvenga quando stanno per arrivare questi due magistrati. 

Otto giorni dopo Falcone viene nominato procuratore aggiunto a Palermo, ma in quell’estate incomincia la stagione “dei veleni” perché riceve lettere anonime che lo screditano. 

Lui non si intimorisce. Non si ferma. Ma un anno dopo se ne va. A Palermo non lo fanno più lavorare. Non lo dice lui ma lo confidano i suoi più stretti collaboratori. Lo sa il suo autista. Lo sa Paolo Borsellino. 

A Roma riparte con nuovo entusiasmo. È difficile immaginarlo dietro la scrivania di un palazzo del ministero, eppure da quell’ufficio riesce a fare molto: nel maggio del 1992 viene approvata una legge per lo scioglimento dei consigli comunali con mafiosi all’interno. Viene creato un fondo per le vittime del “pizzo”. Nasce la Direzione nazionale antimafia. 

Lui dovrebbe essere il candidato naturale a capo di quella Superprocura ma non riuscirà mai a ricoprire l’incarico. 

La domanda dei ragazzi seduti attorno a me è scontata: “Perché?” 

Provate a immaginare. Falcone con il suo lavoro e quello del pool antimafia è riuscito ad arrivare a una sentenza storica: 2.665 anni di reclusione e 19 ergastoli. È la sconfitta della mafia, che non può stare certo a guardare alla finestra. Anzi. 

Qualcosa si è rotto. La mafia ha perso i suoi referenti politici istituzionali che non sono stati capaci di impedire che si arrivasse a quella sentenza. 

“Vuoi dire che i politici avevano a che fare con la mafia? Allora è vero quello che dice mio padre?”, chiede Salvatore. 

Giulio Andreotti, uno dei politici più famosi in Italia appartenente alla Democrazia Cristiana e ai tempi presidente del Consiglio, in Sicilia aveva come referente Salvatore Lima, un altro politico che è stato riconosciuto come uno dei principali riferimenti della mafia. 

La mafia si era sentita tradita da questi uomini. Doveva dare loro un segnale e lo fece uccidendo il 12 marzo del 1992 proprio Salvo Lima. 

“Li ammazzano tutti in quell’anno!”, commenta Manuele. 

E non è un caso. Immaginate un puzzle. Ogni pezzo deve combaciare con l’altro perfettamente. Non ci possono essere tasselli tagliati male, messi al contrario. Il puzzle che abbiamo di fronte ha un tassello che si chiama presidente della Repubblica, un altro che si chiama presidente del Consiglio, poi c’è quello dei magistrati onesti che fanno il loro lavoro e quello di quelli disonesti che fanno affari con la mafia; altri pezzi ancora sono i sindaci, gli imprenditori, i mafiosi. In quell’anno non si riesce più a incastrare nulla. 

Il 25 aprile del 1992 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga dà le dimissioni. Andreotti, che è presidente del Consiglio, mira a quel posto ma il suo tassello non si incastra perché un mese prima è stato ammazzato un suo uomo, Salvo Lima, e tutti sanno ormai che aveva a che fare con la mafia. 

Non basta. 

A Milano, sempre in quell’anno, a febbraio, altri magistrati onesti hanno iniziato a scoprire che tra politici e imprenditori ci sono degli affari. Funziona così: io politico ti faccio costruire quella strada se tu mi dai dei soldi. Poi te li faccio riguadagnare aumentando il costo per costruirla a danno dei cittadini. 

L’indagine che fanno i magistrati si chiama “Mani Pulite” e finiscono in galera proprio degli uomini politici che fino ad allora hanno amministrato l’Italia. 

La mafia ha bisogno di avere dei nuovi “amici” nei palazzi della politica, questi non servono più. E non può avere tra i piedi un uomo come Giovanni Falcone. Troppo pericoloso. Si è messo in testa di indagare proprio sui rapporti tra mafia e appalti, quelli che permettono all’organizzazione criminale di finanziarsi. È lui che ha istituto il Maxiprocesso, che sta indagando l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e che con i colleghi elvetici sta per scoprire delle complicità tra le istituzioni italiane e il mondo della finanza svizzera. È lui che in passato ha puntato gli occhi su un altro imprenditore e politico mafioso che aveva a che fare con Andreotti: Ignazio Salvo. 

Non solo. Ora a Roma si è messo in mente anche di creare quella Superprocura che potrebbe ulteriormente indebolire la mafia. Non serve Falcone e non serve più nemmeno Andreotti, che non deve diventare presidente della Repubblica. 

“Quindi uccidono anche Andreotti?”, chiedono i giovani giocatori dello Zen. 

No. Il primo segnale è arrivato ammazzando Lima. Il secondo arriva con la strage di Capaci: uccidono Falcone prima dell’elezione del capo dello Stato e Andreotti non viene eletto. 

“Ma così la mafia scatena un conflitto!”, esclama Giovanni. 

Proprio così: fanno la guerra per poi fare la pace. E riusciranno a ottenerla non solo con le bombe ma con una trattativa tra parti dello Stato e l’organizzazione criminale. Sono due uomini potenti, Giuseppe De Donno e Mario Mori, carabinieri del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei carabinieri, a incontrare l’ex sindaco Ciancimino, che avrebbe presentato loro un “papello” di richieste arrivate direttamente dal boss Salvatore Riina, per ottenere dei benefici per i mafiosi in carcere. 

Intanto, in quel mese di maggio, lo Stato deve dare un segnale al Paese: arriva dopo due giorni dalla strage di Capaci, con l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro a capo dello Stato. 

La mafia guarda avanti, pensa già a ripristinare nuovi rapporti con i rappresentanti della politica. 

Un anno dopo, il 26 luglio 1993, il partito di Andreotti si scioglie. Anche un altro partito, quello Socialista, si dissolve a causa delle indagini dei magistrati di Milano e il suo “capo”, il segretario Bettino Craxi, abbandona il suo ruolo per poi fuggire in Tunisia una volta condannato. 

Il 29 giugno 1993, intanto, Silvio Berlusconi, un imprenditore immobiliare e fondatore di Mediaset, padrone di molti canali televisivi come Italia Uno, Canale Cinque, Rete Quattro, crea un partito e lo chiama Forza Italia. 

Nel giro di un anno il Paese ha cambiato la storia di quarant’anni. 

Negli occhi dei ragazzi dello Zen c’è un po’ di desolazione. Sono ragazzi che come tutti giocano con le pistole finte e amano la guerra sullo schermo del videogioco ma quando devono scegliere da che parte stare vorrebbero stare dalla parte degli onesti. 

“Alla fine ha vinto la mafia e ha perso Falcone”, sospira Salvatore mentre stacca il piede dal pallone dandogli un calcio per ributtarlo a centro campo. Nel suo gesto vedo la rassegnazione di tanti. Sento quel “tanto non cambia mai nulla” ascoltato troppe volte. Meglio tornare a giocare. 

Noi in realtà quel pallone l’abbiamo buttato a centro campo molti anni dopo. 

Dopo quella strage Palermo e l’Italia intera non si voltarono dall’altra parte. Non pronunciarono una sola parola di scoraggiamento. 

Molti di noi scelsero di stare dalla parte di Falcone e Borsellino, degli uomini del pool di “Mani Pulite”. 

Se penso a una fotografia di quegli anni mi viene in mente l’immagine dei magistrati Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli mentre camminano nel centro di Milano, in Galleria Vittorio Emanuele II, con dietro decine di persone. 

Ognuno di noi si è sentito una di quelle persone. Nessuno ci avrebbe mai convinto del contrario. Molti giovani cullarono l’idea di dare un contributo, di fare la loro parte iscrivendosi a giurisprudenza. Per i più impegnati tra noi era il tempo di ascoltare “Non m’annoio” di Jovanotti e “El Diablo” dei Litfiba ma anche di rispolverare “La storia” di Francesco De Gregori: 

…E poi ti dicono che tutti sono uguali tutti rubano alla stessa maniera
ma è solo un modo per convincerti
a restare chiuso in casa 

quando viene la sera 

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone
la storia entra dentro le stanze, le brucia

la storia dà torto e dà ragione la storia siamo noi… 

Ci trovavamo a canticchiarla nelle manifestazioni studente-sche o magari nel segreto di una stanza mentre studiavamo la prima declinazione di rosa, rosae

Qualcuno di noi, grazie a mamma e papà, alla biblioteca del paese o al professore, si ritrovò tra le mani anche Cose di Cosa Nostra scritto da Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, corrispondente da Roma per il giornale francese “Le Nouvel Observateur”, nel 1991. Quel libro lo trovai nella biblioteca di Grontardo, un paese di 1320 abitanti nella Bassa padana dove ero stato destinato come obiettore di coscienza dal distretto militare di Brescia, competente per la provincia di Cremona. Lo presi in prestito ma restò per sempre nella mia libreria. 

Lo conservo ancora oggi con le sue pagine ingiallite dal tempo e la sua copertina bianca, il nome e cognome degli autori scritti in rosso, il titolo stampato maiuscolo sotto una fotografia in bianco e nero che ritrae un angolo di Sicilia immortalato da Benoit Fontaine. 

Mi aveva colpito una frase di Falcone messa in sovraccoperta: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Iniziai a leggere a partire da quelle parole. In quelle 171 pagine era conservato “il metodo” Falcone, che grazie all’interpretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi degli uomini di Cosa Nostra era riuscito a decifrare il loro “linguaggio”, il loro modo d’agire. Un lavoro fatto soprattutto grazie al rapporto con i pentiti.

“Pentiti? Ma chi sono questi? I mafiosi?”, chiedono i baby calciatori dello Zen, stupiti che ci possa essere qualcuno che collabora con lo Stato in una terra dove si cresce con il ritornello dell’antico proverbio “’A megghiu parola è chidda ca ’un si dici”. 

Eppure questi uomini che hanno scelto di parlare sono stati essenziali per Falcone. Spesso lo hanno fatto solo perché hanno creduto in lui. 

È Falcone stesso a farsi la domanda nel libro: “Perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno (…). Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà (…). Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi”. 

I ragazzi sono tornati a giocare. Io sono rimasto seduto sul muretto. Mi guardo attorno. 

Ragazzi con jeans e sneakers mi sfrecciano davanti a bordo di un motorino senza casco. 

Tra una finestra e l’altra sono stesi i panni che sorvolano un’umanità formicolante che si muove tra un’insula e l’altra. Li chiamano così questi lunghi corridoi sui quali si affacciano gli appartamenti. 

In questo quartiere abbandonato dallo Stato, reso anonimo dalla trappola della burocrazia che si rimpalla le responsabilità, gli abitanti etichettati con la parola “abusivi” si sono autoorganizzati per dare un volto a questa zona: l’energia elettrica in ogni casa, i servizi idraulici, le fognature. Per anni lo Stato ha lasciato che fosse la mafia a mettere le mani sullo Zen. E chi è cresciuto tra le carcasse di automobili e di lavatrici ha voltato le spalle allo Stato. 

Chi ha combattuto lo ha fatto a mani nude: “Vede, qui non abbiamo le bandiere dell’Italia e dell’Europa appese perché ce le rubano”, mi raccontò un giorno il preside della scuola media del quartiere. 

Basta scorrere i titoli dei giornali per comprendere la condanna a cui è destinato lo Zen: “Pizzerie e negozi abusivi nei garage dello Zen, tre arresti”; “Operazione antidroga dei carabinieri allo Zen”; “Sparatoria nella notte allo Zen”. 

L’architetto Massimiliano Fuksas, nel settembre del 2015, una soluzione l’aveva trovata: “Lo Zen andrebbe demolito e al suo posto andrebbe piantata un’enorme foresta di lecci e foreste”. Parole da star. Nulla di più. Forse Fuksas non ha messo piede al centro “Giovanni Vitale”. Forse non si è chiesto nemmeno chi è questo ragazzo dello Zen che si è impiccato in carcere. 

Il famoso architetto probabilmente non ha guardato negli occhi Mariangela, Bice, Giovanni e tutti quelli che in questi anni sempre a mani nude hanno costruito anziché demolire. 

“Qui grazie a ‘Save The Children’ sorgerà un laboratorio di musica, teatro, sostegno scolastico per i ragazzi”, mi disse in una calda estate del 2016 Mariangela tra le macerie di ciò che restava del centro per i ragazzi abbandonato e poi vandalizzato. 

Una frase, una promessa pronunciata camminando tra i vetri delle finestre distrutte, sulle piastrelle divelte e i resti di qualche disegno calpestato da troppi piedi. Non potevo crederci. Eppure Mariangela e gli altri ce l’hanno fatta. Quel laboratorio è lì davanti ai miei occhi che cercano quelli di Calogero, Salvatore, Giovanni, Ciccio, Manuele. 

Forse un giorno anche uno di loro potrà dire: “Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana…”

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